Un fil di pace

Siglati gli accordi di pace (Foto Ansa / Sir)

Si esulta, come ad ogni annuncio di tregua, ma i timori restano tanti: che non regga, che non delinei il futuro ma solo una sospensione al fine dello scambio ostaggi israeliani contro incarcerati palestinesi, che gli animi e le armi si riaccendano al primo mancato rispetto di un intricatissimo piano di momentanea pace – una scaletta di obblighi da rispettare, territori da liberare, persone da restituire -, che il filo di questa quasi pace sia così sottile che sia più facile spezzarlo che mantenerlo intatto.

Israele e Hamas, guidati e incalzati dagli Stati Uniti da una parte, dall’Arabia Egitto e Qatar dall’altra, dopo 467 giorni hanno trovato la forza di fermarsi. Gli esperti spiegano che in questi sedici mesi è completamente cambiata la mappa del Medioriente e di fatti ne sono successi tanti, sovraccaricando timore a timore circa l’espandersi del conflitto: dalle morti dei capi di Hamas agli scontri con il Libano, dagli scambi di missili con l’Iran (la cosiddetta “testa del serpente”) alla caduta del dittatore siriano Assad dopo un cinquantennio di malgoverno e quattordici di guerra civile.

Ma è chiaro che l’epicentro è incarnato dalla Striscia di Gaza dove – sia pur in risposta ad un atto brutale come le violenze e le morti del 7 ottobre 2023 nei Kibbuz – le vittime dichiarate da Hamas sfiorano le 50mila e la situazione del territorio è quella di una distesa polverosa e grigia di macerie, dove è difficile immaginare di riprendere a vivere, anche se gli accordi prevedono il progressivo rientro della popolazione.

Se nella tregua firmata – e a lungo cercata dall’esterno più che dai due contendenti – ha pesato la pressione degli stati che hanno portato alla sottoscrizione dell’accordo, per il suo mantenimento peseranno non meno i giorni a venire, quando le parole messe su carta si dovranno tradurre in gesti, alcuni anche molto difficili come la restituzione da parte di Israele di un numero assai importante di incarcerati palestinesi, tra cui terroristi ed ergastolani. La conta per lo scambio degli ostaggi israeliani (intanto trentatré sugli oltre novanta ancora nelle mani di Hamas) si svolge secondo proporzioni che mutano a seconda di chi viene rilasciato: cinquanta palestinesi incarcerati per ogni soldatessa israeliana (cinque in tutto), trenta per gli altri. Anche i corpi dei defunti israeliani avranno un valore sulla bilancia degli scambi, dimostrando che la logica della guerra – che divampi o cerchi di fermarsi – è sempre legata alla morte.

Il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterrez, ha visto nella deposizione delle armi e nel rilascio degli ostaggi “un raggio di speranza”.

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca dei Latini di Gerusalemme, pur definendo la tregua “una svolta necessaria” l’ha valutata “ancora molto fragile”. La minano alcune tensioni di fondo: da una parte il governo Netanyahu, diviso al suo interno per la fermezza con cui gli elementi dell’estrema destra rifiutano accordi e restituzione di terroristi palestinesi fino a minacciare le dimissioni; dall’altra Hamas con la sua striscia di cenere e cadaveri e un odio rinsaldato che durerà chissà per quante generazioni; su tutto e tutti pesa inoltre il silenzio riguardo il futuro politico e amministrativo della Striscia.

L’inascoltato papa Francesco dichiara ogni domenica che la guerra è una follia e anche questa lo è stata; che la guerra è una sconfitta e anche questa – ultima di tante altre in quella terra contesa e divisa – lo è stata. Auguriamoci che questo debole fil di pace che ora si alza da quei territori sappia farsi, giorno dopo giorno, voluta e cercata quotidianità.