Presepe ucraino

Se il Natale è un presepe e una famiglia, allora questo che arriva – e che da noi riempie di luci le case, di sorrisi gli sguardi, di abbracci gli incontri e di natività preziose i salotti – dovrebbe dirci quanto una parte di questo mondo ne sia drammaticamente lontana.

Natale è un bambino, una nascita, una gioia che illumina i volti e i cuori; per chi crede è l’incarnazione del Bambino che porta salvezza e sconfigge per sempre la morte. Eppure, i nostri giorni si riempiono di notizie luttuose: vertiginosi totali di vittime vengono dalla terra dei vangeli, lì dove il Natale si compì; altri numeri crescono silenziosamente di giorno in giorno, di notte in notte, da quasi quattro anni, in un mondo assuefatto di quanto continua ad accadere.

Sì, manca proprio quel Natale di vita dalle nostre cronache, anche se le strade sono a festa, stelle di luci lampeggiano nel buio e anche noi ci perdiamo, in cerca di ristoro, nello sfavillio di questa dolce atmosfera.

Il mondo va così: da una parte feste sgargianti, spese inutili, corse all’ultimo regalo; dall’altra lacrime, freddo, solitudine e paura, tanta paura ad ogni allarme. E se in Terrasanta, pur tra mille problemi che restano spalancati, si rivivono anche i segni del Natale dopo due anni e a Betlemme si riaccende l’albero, dall’altro fronte di guerra non giungono buone notizie: l’invasore guarda al paese invaso come ad una tavola imbandita da cui prendere quanto aggrada, tramuta le persone in statuine da spostare, e anche colpire, impunemente.

Lo hanno ricordato bene le donne ucraine protagoniste di un incontro in Portogruaro: badanti nei nostri paesi che raccontavano la “loro” guerra. In un tavolino avevano allestito un’esposizione di foto incorniciate: un presepe ucraino di mariti, figli e nipoti sulle cui esistenze è piombato l’orrore più grande: combattere.

Una madre, vestita della camicia tradizionale ricamata, raccontando la sua storia con impareggiabile saldezza, ha colto da quel tavolo due foto, le ha baciate, poi ha mostrato il figlio maggiore, che non vive più se non nel suo cuore e nel sorriso un po’ tirato del ritratto, e il figlio più piccolo che sta al fronte.

Un’altra, la nota poetessa Oksana Stomina di Mariupol, ha recitato le poesie scritte per il marito che non vede da anni: era uno dei difensori dell’acciaieria Azovstal; fatto prigioniero nel 2022 con la promessa del rilascio, su di lui è invece calato il silenzio. La guerra uccide i soldati, strazia i cuori delle madri, delle mogli, delle sorelle. Ad esse non toccano consolazione né ascolto, perché della guerra decidono i grandi, da sale bianche e dorate, in vesti eleganti, irremovibili nelle loro bramosie, spericolati nelle pretese che neanche indossano più le vesti delle richieste, in discorsi stupefacenti dove vero e falso volteggiano danze macabre sulle vite della gente normale, sui civili.

Tre anni e dieci mesi dall’invasione russa hanno provocato in Ucraina: 3,700mila sfollati interni (59% donne), 5 milioni e 600mila rifugiati all’estero (90% in Europa), 14,5 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria e oltre 5 milioni in stato di insicurezza alimentare. Su questo scenario la pace al momento non si annuncia, mentre il tutto si intorbida di versioni che cambiano. Restano veri i morti – di cui non si conoscono al momento le cifre esatte per l’una come per l’altra parte -, e resta certa la sofferenza di chi ha perso chi amava.

Di fronte a tutto ciò quanto è lontano il Natale e, proprio per questo, quanto è indispensabile. Se il Natale è la festa della vita, della speranza, della pace, della gioia e della luce, la guerra è la grancassa della morte, della disperazione, del buio, del dolore. Sarà per questo che il primo non potrebbe esistere se non fosse sceso dall’alto dei cieli, la seconda invece è proprio figlia dell’uomo.