L'editoriale
Se il mondo è dei guerrafondai
Se il mondo è dei guerrafondai
Simonetta Venturin
Se da una parte agosto ha visto un crescendo di incontri e summit tra i grandi della terra all’insegna della cercata pace, dall’altra i due conflitti che più riempiono gli spazi dei nostri mass media e agitano i nostri animi – Ucraina e Striscia di Gaza – sono entrati in fasi roventi. Fatti e parole si mostrano dunque quanto mai distanti.
Sul fronte ucraino, dopo il vertice in Alaska con l’incontro Trump – Putin, chiusosi con un niente vestito di vaghe intese, dopo un incontro Trump-Zelensky con tanto leader europei spettatori, l’attesa più grande era per l’annunciato faccia a faccia Putin – Zelensky alla presenza del presidente americano. Ma, anche questa volta, tra il dire e il fare resta di mezzo l’amara verità della ferocia della guerra tanto che l’attesissimo a tu per tu tra invaso e invasore, preannunciato per fine agosto, risulta cancellato prima ancora di trovare una data in calendario. Troppo poche le garanzie per l’Ucraina e soprattutto troppi piani di conquista ancora da completare per Mosca: portare via territori per farseli definitivamente riconoscere e quindi inglobarli è l’obiettivo dal quale Putin non si allontana. Non solo: restano inaccettabili per Mosca l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Ue come pure la presenza di una forza straniera internazionale a garanzia della raggiunta futura pace. In una parola: è Putin che detta legge ai tavoli, mentre continua a bombardare pesantemente la terra e la popolazione ucraina, agevolato in questo anche dal fatto che il suo interlocutore primo, ovvero il presidente degli Usa Trump, pacificatore di aspirazione, si è sottratto dalla logorante ricerca di un dialogo tra le parti sbottando: “Decidano loro”. Come dice il motto: dopo tanti lamenti la montagna partorì il topolino (Orazio, Ars poetica, 139). Ma non mancando i colpi di scena, solo un paio di giorni dopo, lo stesso ha dichiarato: “E’ ora di porre fine alla carneficina in Ucraina”.
Sul fronte Striscia di Gaza, è in atto l’operazione chiamata “Gideon’s charriot 2”, con la quale Netanyahu ha dato il via all’occupazione di Gaza City al fine, questa la motivazione, di scacciarvi definitivamente Hamas. Del futuro della terra palestinese non si parla più: solo a metà agosto, infatti, il premier israeliano aveva dichiarato: “Israele non annetterà la Striscia di Gaza”, tratteggiando un futuro affidato alla vigilanza di una non precisata forza araba. Ora i fatti dicono di continui attacchi alla città in polvere, cammino luttuoso verso un probabile inglobamento tout court. Glielo lasceranno-lasceremo fare? Impossibile non farsi questa domanda. Ma un’altra realisticamente si impone: come fermarlo se le parole a nulla più valgono?
Domande valide per entrambi i conflitti, accomunati da motivazioni simili (nemici da debellare: Hamas come “i nazisti ucraini”) e dal fatto che un paese entra in un altro per appropriarsene quanto basta alla propria tranquillità o nel nome di un’antica rivendicazione territoriale.
Sono angosciosi questi giorni lontani dai tempi del Diritto e delle leggi internazionali a difesa dei confini, dei paesi, della incolumità delle persone; diritti che a lungo hanno frenato brame di conquista e garantito decenni di pace. Oggi, invece, sembra che chi ha dalla sua il potere e la forza bruta delle armi possa scegliere la sua politica e compierla: padrone del destino di popoli e nazioni come della vita e della morte di milioni di persone. Nel caso di Putin e Netanyahu pure impunemente, se si pensa alle condanne che entrambi hanno per le compiute violazioni del diritto internazionale.
