Per fortuna siamo diversi

Comunità, una delle parole più ricche e fondamentali del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità è sempre stata una realtà tutt’altro che ideale, omogenea perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte.

Comunità, una delle parole più ricche e fondamentali del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità è sempre stata una realtà tutt’altro che ideale, omogenea perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte.Stando alla Bibbia è Caino a fondare la prima città. Il mito fa nascere Roma da un fratricidio. La città può essere raccontata senza pericolose riduzioni ideologiche solo se non rifiutiamo questa sua ambivalenza originaria. Ce lo suggerisce la stessa radice latina del termine “comunitas cum munus”. L’appartenenza alla comunità è un dono che va ricambiato “cum munera”, con impegni e obblighi. La gratuità che evolve nel doveroso. E’ questa stessa tensione semantica e sociale che origina la ricerca del bene comune. Se invece questa tensione vitale si spegne e ne restano solo i (presunti) doni o solo gli obblighi, le patologie relazionali sono sempre sull’uscio (se non dentro) casa. Il dono diventa faccenda irrilevante per la vita sociale, gli obblighi si trasformano in lacci.A pensarci bene la comunità non è elettiva. Il “cum” non lo creiamo noi con le nostre scelte, è più grande di noi. I nostri compagni di comunità ce li troviamo accanto, alcuni non ci piacciono, molti non li sceglieremo come amici, eppure sono inevitabilmente lì, noi dipendiamo da loro e loro da noi. La non elettività e l’interdipendenza sono la costante della comunità e accomunano tra loro la classe scolastica, i luoghi di lavoro e la comunità cittadina. Il compagno di classe scolastica, il collega, il vicino di casa condizionano la mia vita per il solo fatto di insistere sul mio stesso territorio, anche quando cerco di evitarli, anche se non li amo, li ignoro, li combatto. Così possiamo usare la stessa espressione “comunità” per chiamare famiglia, scuola, impresa, nostro Paese, finchè sentissimo dentro gli stessi “cum” gli stessi “munera”.La non elettività della comunità inizia già nella prima comunità originale. La famiglia. Non scegliamo né genitori né figli, né fratelli né sorelle. E anche se è vero che scegliamo la moglie o il marito, è ancora più vero che ciò che negli anni dell’innamoramento scegliamo nell’altro coesiste con tutta una parte dell’altro che non abbiamo scelto, perché sconosciuta ad entrambi. Una parte non scelta che cresce negli anni, fa fiorire l’innamoramento in agape e da una dignità immensa all’amore coniugale fedele, perché la fedeltà più preziosa e costosa è quella parte non conosciuta, non scelta dell’altro (e di se stessi), in generale. In generale i rapporti nascono elettivi (amicizia, innamoramento) e diventano capaci di generare buone comunità quando si aprono alla dimensione non elettiva degli amici di accogliere i non amici. Altrimenti restano consumo che può anche nutrire ma non genera.I gruppi umani più significativi e irrinunciabili non li scegliamo. Voglia o non voglia, vi siamo dentro. E’ nella convivenza quotidiana con questa non elettività che impariamo i codici relazionali e spirituali cruciali nella vita, combattiamo il narcisismo (che oggi è pandemia sociale) e diventiamo adulti. Un apprendistato personale che assume un valore altissimo, quando si resta per una misteriosa fedeltà se stessi in comunità nelle quali non ci si riconosce più, quando arriva una sorta di “risveglio” si ha l’impressione forte di aver sbagliato comunità e quasi tutto. A chi riesce a resistere dopo questi risvegli dolorosi, può darsi che da figli di quella comunità si ritrovino padri di essa.Oggi è molto forte il creare comunità elettive con il ruolo dcisivo del web. dove si hanno le stesse idee e gli stessi gusti. , gruppi evanescenti, in cui le relazioni sono nient’altro che messaggini.Ma uno dei messaggi che arriva dalla millenaria sapienza della nostra civiltà è “l’insuficienza delle comunità simili” per la costruzione di una buona vita”. Se continueremo ad abbandonare le comunità naturali, quindi i territori parteciperemo presto a una nuova forma di feudalesimo fondato su caste sociali con le roccheforti delle banche blindate e presidiate e attorno il degrado delle periferie sociali e culturali.Era la condizione dell’Europa dopo il crollo dell’impero romano. Nel feudalesimo pochi ricchi vivevano in rocche fortificate e attorno ad essi c’erano scorribande, degrado. Uno scenario che sta già comparendo nei tanti “Davos” del capitalismo finanziario.Quando imprenditori manager e finanzieri non toccano più i corpi delle comunità vitali e meticce, producono danni immensi, a volte fatali.Un grande racconto sul decadimento delle comunità dei diversi nel comunitarismo dei simili è la Torre di Babele (Genesi 11). La comunità salvata e rinata dopo il diluvio si raduna in un sol luogo, con una sola lingua, una sola terra. Dopo ogni diluvio e crisi epocale c’è sempre forte nelle comunità la tentazione di chiudersi tra simili, di espellere i diversi, di non disperdersi sulla terra. Dove non c’è diversità, promisquità, contaminazione non c’è fecondità, i figli non nascono. La comunità senza diversità si trasforma presto in forme di fondamentalismo, di idolo di se stessa. Questa Europa post feudale delle varie patrie e lingue e dei dialetti e tradizioni locali, abitata ora da gente che arriva dall’intero pianeta, oggi è minacciata da movimenti nazionalisti e xenofobi e dalle babele della finanza e delle rendite, chiuse nelle loro cittadelle ben presidiate e fortificate. Noè, il giusto, aveva costruito un’arca (barca, cesto) per salvare la varietà, la molteplicità delle specie dei viventi, una varietà-diversità che gli uomini riuniti a Babele vogliono eliminare. La dispersione  del comunitarismo di Babele è la pre-condizione per l’edidificazione di mille comunità popolate dalle molteplici lingue, colori, varietà e bellezza di incontri sempre nuovi.