Diritto alle cure nel fine vita, argine etico e giuridico

Fine vita (Foto Siciliani-Gennari / Sir)

È stato respinto dalla Corte costituzionale italiana il 25 luglio u.s., con sentenza n. 132, un pericoloso assalto alla vita nella sua fase terminale.
Il tentativo è stato mosso dal Tribunale di Firenze, fattosi portavoce di un “caso pietoso” per il quale chiedeva di ammettere l’“omicidio del consenziente”, ossia l’eutanasia, delitto previsto dall’art. 579 del nostro codice penale, così come la stessa Corte aveva previsto nel 2019, a certe condizioni, il suicidio “assistito”, rubricato quale reato di “istigazione o aiuto al suicidio” dal suddetto codice all’art. 580.
Va precisato che ambedue le fattispecie sono moralmente inaccettabili dalla morale cattolica, che impegna a curare ed assistere il malato in condizioni critiche – sollevandolo pure dal dolore – fino alla sua morte naturale, evitando perciò ogni accanimento terapeutico. È questo che avviene con le auspicate cure palliative.
Ma sul piano giuridico – come anche su quello etico – c’è una bella differenza di gravità tra i due interventi citati che spengono la vita umana avviata al tramonto. Infatti, nel suicidio “assistito” è lo stesso paziente che si rende responsabile di autosomministrarsi una sostanza letale da lui liberamente richiesta. Non gli è impedito di farlo entro parametri accertati: la sua malattia deve essere inguaribile, dipendente da trattamenti di sostegno vitale e con sofferenze ritenute insopportabili. In questa ipotesi l’aiuto prestatogli a darsi la morte rimane “impunito”, non autorizzato, in quanto non è invocabile un “diritto di morire”, a detta della medesima Corte costituzionale.
C’è quindi una parete divisoria che separa il suicidio “assistito” dall’eutanasia. Il tentativo, ora respinto, di abbattere il suddetto diaframma avrebbe fatto dilagare disastrosamente nella nostra società la “cultura della morte” a detta di S. Giovanni Paolo II, chiamata “cultura dello scarto” da Papa Francesco.
Purtroppo, l’obiettivo irrazionale di rompere gli argini sul versante del “fine vita” per sopprimerla viene propagandato da molti mass media e viene tentato non di rado da interventi giudiziari, oltre che sbandierato da partiti politici. Per catturare allo scopo il consenso dell’opinione pubblica sono esibiti i cosiddetti “casi pietosi”, che certamente meritano solidarietà e aiuto per ogni dramma del genere, ma non la strumentalizzazione indegna della persona dominata dalla malattia e neppure la manipolazione ideologica con effetti rovinosi per l’intera società.