L'editoriale
Le cose così come stanno

Le cose così come stanno
Simonetta venturin
La famiglia di Cecilia Sala, la giornalista italiana incarcerata a Teheran per aver violato le leggi della repubblica islamica dell’Iran, chiede il silenzio stampa e lo rispettiamo. Ma la terribile vicenda conferma una volta di più che fare il giornalista, farlo girando il mondo per testimoniare quanto accade, è una professione rischiosa e – ai nostri giorni – intrapresa spesso da free lance senza contratto, allo sbaraglio personale e professionale. Per questo il giornalismo, nella sua essenza, è una vocazione che si fa – specie per qualcuno – una difficile missione.
La missione dei giornalisti è sempre quella di raccontare i fatti così come sono accaduti o stanno accadendo. Una cronaca onesta che si fa verità degli eventi contro le versioni edulcorate e/o manipolate del potere: politico, economico o di altro tipo che sia. Al potere questo di solito dà gran fastidio, tanto è vero che, per fare un esempio concreto e attuale, in Gaza non sono ammessi giornalisti se non i palestinesi che in Gaza stessa sono bloccati dagli eventi della guerra in corso.
Quello che può invece demotivare è il peso dei luoghi comuni legati alla poco utilità della professione: come se indagare su qualcuno o qualcosa o una guerra o un sopruso sia ad uso personale di chi indaga e non a servizio della collettività. L’essere liberi – anche di decidere – si fonda pure sulla conoscenza delle cose e dei fatti. Nel raccontarli i giornalisti possono rischiare grosso: denunce, minacce (si pensi ai giornalisti che vivono sotto scorta come Federica Angeli dopo un reportage sulla mafia ad Ostia o il noto Roberto Saviano), o peggio ancora. Ricordiamo quanto accaduto a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1991, e quanto accade ogni anno ripetutamente a giornalisti che scivolano via dimenticati insieme alle loro fatiche non sempre riconosciute: come grilli parlanti rischiano di essere messi a tacere con una martellata dal Pinocchio di turno per aver detto le cose così come stanno.
Nel caso dei giornalisti che seguono i teatri di guerra la scritta “press” (stampa) su caschi, auto e giubbotti non è garanzia di salvezza da droni, missili, bombe né da arresti o mandati di arresto, come è accaduto qualche mese fa alla giornalista Rai Federica Battistini e al suo cameramen Simone Traini raggiunti da un simile mandato da parte della Russia per essere entrati nella Federazione al fine di filmare l’invasione della città di Sodzha (regione di Kursk) da parte delle armate ucraine. I due, ora impiegati su altri fronti di guerra, stanno bene ma non a tutti è andata così.
Lo dicono i dati resi noti il 2 gennaio dalla Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), secondo la quale il 2024 è stato un anno nero: 122 gli operatori dei media uccisi e 516 quelli incarcerati. Record assoluto della pericolosità della professione si è registrato a Gaza, dove hanno perso la vita il 58% dei giornalisti uccisi dell’anno. Dei 71 giornalisti caduti in Gaza (cinque il solo 26 dicembre, a bordo di un camioncino bianco con la scritta Press bene in evidenza) 64 erano palestinesi, 6 libanesi, uno siriano. I dati di “Reporter senza frontiere” dicono di centocinquanta giornalisti palestinesi uccisi in Gaza dall’inizio del conflitto: chi racconta lo fa a rischio della propria vita. Negli anni precedenti al conflitto Israele-Hamas l’area del mondo di maggior rischio per i giornalisti era invece l’America Latina, col Messico in primo piano (per denunce e reportage contro il narcotraffico).
Queste morti e questi arresti mostrano il lato eroico del giornalismo, poi c’è quello quotidiano in zone non di guerra, meno rischioso ma non senza intoppi e difficoltà: vi ci si imbatte ogni qualvolta qualcuno si nega, o tace o fa rimbalzare contro il muro di gomma di informazioni fornite senza dialogo o interlocuzione, veline per preconfezionate visioni sui fatti.
La libertà di stampa è preziosa e minacciata insieme. Il rapporto 2024 vede l’Italia al 46° posto su una classifica di 180 paesi. Non male e non bene: sopra di noi c’è Tonga, appena sotto Polonia, Croazia, Romania, Ghana, Uruguay. Il Brasile è all’82° posto, l’Albania al 99°, Israele al 101°, il Messico al 121°, la Libia al 143°, la Palestina al 157°, la Turchia al 158°, la Russia al 162°, l’Iraq al 169, l’Egitto al 170°. Norvegia, Danimarca e Svezia coprono i primi tre posti, il Portogallo è all’8°, la Germania al 10°, la Francia al 21°, il Regno Unito al 23°, la Spagna al 30°. L’Iran, che ha arrestato Cecilia Sala per farne merce di scambio, è al 176° posto, quartultimo. Ma, come scriveva Oriana Fallaci: “Vi sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”. Non è facile essere così pronti, senza far prevalere l’istinto di sopravvivenza: Cecilia lo ha fatto, anche per noi.