L'editoriale
Il sì che apre al futuro e alla vita
Sul secondo anniversario del 7 ottobre 2023 sventola finalmente la concreta possibilità della pace. E’ una bandiera insanguinata come tutte le bandiere di pace sono: prima dal sangue dei coloni e dei giovani israeliani, poi da quello dell’infinita strage dei palestinesi. A male subìto gli uomini hanno risposto come quasi sempre nella storia: con un male ancora più grande. Ma se le armi si fermeranno per davvero, tutto non potrà dirsi comunque risolto. Lo ha detto il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa: “La fine della guerra non sarà la fine del conflitto. L’odio che ha scatenato è ancora profondo”. E se lo dice lui, che ha disobbedito al comando di Israele di abbandonare Gaza, c’è da crederci.
Questo piano ferma il grilletto non l’odio che ha armato le mani, comprese quelle di chi, ragazzo o bambino, mani alle armi non ha messo, ma ha visto i loro effetti sui fratelli mutilati e uccisi, sugli amici scomparsi, sulla propria casa distrutta, sulle prospettive di una vita ridotte, come la Striscia, in macerie. Ugualmente non ne sono indenni i familiari dei 250 ostaggi trattenuti in condizioni subumane o quelli dei 1.290 seviziati e uccisi due anni fa.
Come ha spiegato Pizzaballa: “Dovremo ricucire le comunità dal basso con tanta pazienza. Serve una narrazione lucida e solida da contrapporre a quella degli estremismi”.
Perché è lì la scaturigine di tanti mali: dall’estremizzarsi delle posizioni fino a quel punto in cui le visioni si fanno inconciliabili tanto da rifiutare anche solo l’idea del dialogo e della convivenza, da non accettare più nessuna mediazione, che è la capacità di prendere e insieme di cedere pur di non arrivare al male assoluto che è la guerra, in cui l’altro è solo nemico e l’unico pensiero che lo riguarda diventa l’annientamento.
Ora sia grazie alla volontà di Trump di far fermare il conflitto, che al determinante convergere sulla proposta del mondo arabo – a partire dal Qatar –, Netanyahu prima e Hamas dopo hanno dimostrato di volersi fermare. Hamas accetta la liberazione degli ostaggi, la tregua duratura, la cessione del potere a un organismo palestinese indipendente ma in cambio ottiene il salvacondotto per i miliziani che si consegnano, la liberazione di 1.900 detenuti palestinesi e 250 ergastolani. Certo, è pur vero che si tratta di un sì condizionato al prendere parte alla discussione sul futuro assetto della Striscia, ma è un sì: l’unica risposta da cui si può ripartire. Partire per dialogare, partire per ridare un futuro ai circa due milioni di gazawi.
Anche Israele ha accettato alcuni punti fondamentali: immediati cessate il fuoco e distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione della Striscia; Gaza guidata da un comitato tecnico palestinese e la sua non annessione; l’avvio di un percorso che porti alla creazione dello stato palestinese. Ipotesi che hanno sollevato la violenta contrarietà dei ministri conservatori Ben Guir e Smotrich.
Se le trattative di Sharm el-Sheick vanno a buon fine si va dunque verso un futuro a due stati, la cui convivenza ravvicinata è al momento difficile anche solo da immaginare: per il troppo odio che c’era e che con la guerra si è moltiplicato a dismisura; per un piano di pace impegnativo e con tanti punti da chiarire, quindi con altrettanti accordi da trovare.
Pizzaballa ha manifestato prudenza: da un lato gioisce per la pace che si intravede, ma dall’altra ribadisce che è presto farlo pienamente e, circa il futuro, avverte: “Non vogliamo assistenza, ma supporto per costruire iniziative economiche ispirate al bene comune”.
Padre Ibrahim Faltas, custode di Terrasanta, ha scritto che la pace non è l’unico obiettivo: “La pace vera ha bisogno di verità e di giustizia, su questi valori va costruita e poi mantenuta (…). Senza verità e giustizia è difficile mettere la parola fine alla tragedia che sembra senza fine di Gaza e della Cisgiordania, di Israele e della Palestina” (Avvenire, sabato 4 ottobre).
Il cammino è lungo e difficile: lo è stato sempre dall’iniziale 1948 ad oggi; lo sarà ancora. Auguriamoci che il domani abbia passi di pace, perché, come sosteneva papa San Giovanni Paolo II: “Se non ci sarà pace a Gerusalemme, sarà impossibile la pace in tutto il mondo”.
