L’esperienza in Etiopia di Alice Perin, cooperante pordenonese appena rientrata dall’Africa

“Ogni goccia che si porta aiuta a migliorare la vita di chi non ha nulla”

In volo organizzato dalla Ethiopian Airlines ha interrotto un’esperienza di cooperazione nelle terre povere dell’Etiopia, dove si muore ancora a causa di un parto un po’ complicato o per una banale infezione.Alice Perin, pordenonese, ha dovuto fare rapidamente i bagagli per tornare in Italia, a causa dell’epidemia di coronavirus che non ha risparmiato nessun posto al mondo. È rientrata per motivi di sicurezza, quando ovunque si preparava il lockdown con la chiusura delle frontiere. Meglio non rischiare. Da fine gennaio, era a Wolisso, a un paio di ore d’auto da Addis Abeba, dove l’organizzazione dei Medici con l’Africa Cuamm gestisce un ospedale di duecento posti letto, quasi sempre pieni, con l’obiettivo di allargare il diritto alla salute a chi non ha nulla. Il “San Luca” è diventato il presidio sanitario per la popolazione di un’immensa area che conta più di un milione di persone. Tutt’attorno gravita una rete di centri medici che riducono la lontananza dei piccoli villaggi, sparpagliati sull’altopiano, perché non si deve morire per colpa di distanze chilometriche eccessive, magari lungo la strada accidentata che porta alla salvezza.Alice Perin, volto dolce della cooperazione internazionale, non è ancora trentenne, ma ha già un buon bagaglio di competenze: un anno di servizio civile in Argentina, accanto ai bambini di strada; due anni di lavoro tra le povertà della Guinea Bissau. Chi l’ha vista all’opera sottolinea il suo spirito di adattamento: in poco tempo ha imparato il creolo, che è la lingua popolare del piccolo Paese africano, così da immergersi nella cultura locale. I suoi studi fanno capire l’orientamento verso una professione indirizzata alla comprensione dei problemi di aree geopolitiche particolarmente fragili e rischiose: una laurea triennale in Scienze diplomatiche a Forlì e un titolo accademico magistrale in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale, conseguito a Roma. La teoria aveva bisogno di sbocchi pratici sul campo, così Alice si è messa subito in gioco, aiutata da un carattere grintoso e con idee ben chiare: “L’Africa è una tappa fondamentale nella vita di un cooperante: di certo è faticosa, richiede pazienza e apertura mentale, ma è proprio così che si mettono in pratica le idee maturate all’università”. Questo suo pensiero racchiude il coraggio di non temere di porsi controcorrente, perché la scelta dell’Africa fa arricciare il naso a più di qualcuno, a chi magari rilancia slogan di moda: “prima gli italiani”. Una giovane potrebbe restarci male a sentire queste critiche. Lei no: “Anche nel nostro Paese c’è bisogno di cooperazione. Alcune organizzazioni sono impegnate con reti di servizi per dare sostegno a chi ha bisogno. Ci sono margini di miglioramento, ma almeno le strutture sono affidabili. In Africa no, c’è improvvisazione. Senza aiuti si muore. Ci sarebbe il vuoto senza l’intervento delle Ong”. Certo, ci sono anche i rischi: “Servono preparazione e responsabilità”. La vicenda tormentata di Silvia Romano è ancora fresca, ma Alice preferisce non entrare nel merito: “Sono contenta che sia tornata viva”.In realtà, è un po’ tutto il Continente nero a vivere in una situazione precaria. Senz’altro è la parte subsahariana, ad aver bisogno di interventi di soccorso. Perché l’Africa attrae Alice? “È il pezzo di mondo più povero. Dopo aver ultimato il corso di studi, la scelta di partire è venuta automaticamente. È lì che voglio contribuire, nel mio piccolo, per dare una mano”. La giovane arrossisce un po’, perché sa che non può cambiare il mondo: “Ogni goccia che si porta aiuta però a migliorare la vita di chi non ha nulla”. E cala l’asso che spiega il senso della cooperazione: “Il mio modo di camminare è di lavorare, giorno dopo giorno, assieme alle popolazioni locali, in prima linea per garantire i diritti fondamentali, a partire dalla sanità che spesso viene negata agli africani. L’accesso alle cure dovrebbe essere un diritto per tutti, non un privilegio per pochi”. Questa è la filosofia dei settant’anni di storia del Cuamm: lavorare con l’Africa, non semplicemente per l’Africa. Non a caso è stata scelta la preposizione che unisce (il “con”) e che incoraggia a lavorare assieme alle comunità: dialogo, confronto, realizzazione e passaggio delle consegne a una nuova classe di professionisti. In pratica, è una scelta che va in direzione opposta alle vecchie logiche colonialiste. Si chiama autodeterminazione dei popoli.Il lavoro di Alice in Etiopia era di tipo amministrativo, legato all’attività sanitaria del Cuamm. Un impegno dietro le quinte, ma importante per l’organizzazione di tutte le risorse messe in campo: “La gestione equilibrata dei finanziamenti – spiega – permette lo sviluppo di ogni specifico progetto a favore delle popolazioni”. L’obiettivo è di trovare la semplicità delle soluzioni da procedure ingarbugliate. È un po’ come in Italia, dove si combatte contro l’eccessiva burocrazia: bisogna vincere le resistenze. Il lavoro di questi giovani cooperanti è proprio quello di individuare il nocciolo dell’essenzialità, così potranno aiutare anche il nostro Paese a disincagliarsi da pratiche troppo contorte.L’amarezza di Alice è di aver interrotto l’attività in Etiopia. Il coronavirus ha consigliato il rientro per evitare rischi in un Paese dove il sistema sanitario è fragile: in molti casi, c’è a stento un letto di terapia intensiva per ogni milione di abitanti. Che dire poi delle regole igieniche, quando a fatica si trova l’acqua per bere? Meglio lasciare sul campo il personale medico abituato alle emergenze. “In questa situazione precaria – racconta – il Cuamm mi ha permesso di poter continuare il mio lavoro dall’Italia”. E il futuro? “Si vedrà, perché fare programmi è difficile”. Ma quando si nomina l’Africa, ad Alice torna spontaneo il sorriso: ci pensa, eccome se ci pensa.