Diocesi
Messa del Crisma e anniversari delle ordinazini sacerdotali
Si è appena conclusa in concattedrale San marco di Pordenone la solenne Messa del Crisma, celebrata dal Vescovo Pellegrini e concelebrata da tutto il clero diocesano. E' la mesa durante la quale il vescovo benedice i sacro Crisma e gli altri olii che vengono poi distribuiti ai sacerdoti e che verranno usati per impartire i sacramenti fino al prossimo giovedì santo. Nell'occasione vengono anche ricordati gli anniversari di ordinazione sacerdotale.
Si pubblicano di seguito i sacerdoti di cui ricorrono gli anniversari e l’omelia del vescovo Giuseppe Pellegrini.
SACERDOTI DI CUI SI RICORDANO GLI ANNIVERSARI
73° GIOVANNI TASSAN72° LINO GARAVINA71° SIGALOTTI DOMENICO
70° 1. GERARDI ARRIGO
60° 1. CATTARUZZA TERZIANO 2. GIANOTTO GIUSEPPE 3. MARTIN RENATO 4. PERIN PIETRO 5. PESCAROLLO ADRIANO 6. TESSARI ANTONIO 7. TONDAT SILVANO 8. VECCHIES GIUSEPPE
50° 1. CORAZZA GIANFRANCO 2. FABRICI LORIS 3. MAZZEGA RUGGERO 4. PIGHIN BRUNO 5. QUAIA VINCENZO
25° 1. BARRO LORENZO 2. RUGGERI GIACOMO 3. VENA ANDREA
Concelebrano per la prima volta la S. Messa Crismale: Boris Bandiera e Davide Ciprian
Ricordiamo al Signore coloro che dall’ultima Messa Crismale vivono alla Sua presenza nella comunione dei Santi: 1. Mons. Danilo Favro 2. Mons. Silvio Cagnin 3. Mons. Primo Paties 4. Sac. Egidio Masutti 5. Mons. Ferruccio Sutto 6. Sac. Luigi Viviani 7. Sac. Vittorino Zanette 8. Sac. Giacomo Marson.
I presbiteri: poveri nello Spirito di Gesù
+ Giuseppe Pellegrini, vescovo
Carissimi presbiteri e diaconi,
la celebrazione di oggi è un grande momento che ci aiuta a riscoprire con gioia e semplicità i tratti salienti della nostra ordinazione e configurazione a Cristo, a vivere con passione il servizio ministeriale nella Chiesa e a prenderci cura della nostra umanità, sull’esempio di Gesù che l’ha assunta in pienezza. Ce lo ricordano le parole del prefazio: “Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso”. Innanzitutto desidero esprimervi la grande gioia nell’essere presenti e nel trovarci tutti insieme con il vescovo Ovidio, che ringrazio per la sua presenza e generosità nel servizio pastorale; con voi presbiteri diocesani che condividete con passione e dedizione la cura dell’annuncio del Vangelo nelle comunità; sentiamo vicini i confratelli che per malattia o altre difficoltà sono uniti a noi spiritualmente, e con coloro che sono in servizio pastorale come Fidei Donum in altri paesi del mondo; con voi diaconi permanenti, con i consacrati e consacrate, i seminaristi e tutti i fedeli laici qui presenti, in rappresentanza di tutte le comunità parrocchiali.
Come gli abitanti di Nazareth desideriamo anche noi tener fisso lo sguardo su Gesù che, come ci ricorda l’Apocalisse è “il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (1,5). Lo ascoltiamo mentre dichiara compiuta in sé la profezia di Isaia, perché è Lui il consacrato con l’unzione dello Spirito del Signore e l’inviato per annunciare ai poveri il lieto messaggio (cfr. Luca 4,18). Gesù è la carità di Dio fatta carne che, nell’oggi del tempo della Chiesa, continua a compiere la parola di salvezza attraverso di noi, vescovi, presbiteri e diaconi, associati a sé con il sacramento dell’Ordine per essere nel mondo servi e pastori. Gesù, che è l’umanizzazione dell’Amore di Dio, ci chiama a ripresentarlo in mezzo al popolo di Dio nelle fattezze della nostra umanità matura e responsabile, nella sollecitudine dell’amore e della solidarietà verso gli altri, nella libertà del distacco dagli affetti e dal possesso delle cose e nell’intensità della nostra preghiera e relazione filiale con il Signore. Per Gesù, la carità non è soltanto un moto intimo del cuore, un’intenzione di compiere qualche buona azione; è una carità che parte dall’ascolto della Parola di Dio e che si manifesta in un determinato luogo e momento particolare della vita e della storia, seguendo il progetto di Dio. Gesù non apparteneva alle classi più povere ed indigenti della società palestinese; non era un misero o un accattone, aveva una casa, una famiglia e Giuseppe faceva il falegname, pur vivendo la vita in maniera semplice e sobria, abbandonandosi fiduciosamente alla provvidenza del Padre. Nel vangelo, i poveri sono coloro che non contano sulle proprie forze perché non hanno niente di cui gloriarsi o a cui appoggiarsi, nemmeno i beni materiali, ma sono certi della presenza del Signore, della sua bontà del suo amore e della sua misericordia. Sono coloro che hanno posto in Dio la loro fiducia e speranza e proprio per questo sono più disponibili ad accogliere la buona notizia di Gesù, il Vangelo. Gesù è vissuto povero, assumendo nella sua vita la povertà radicale, Lui che “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso… diventando simile agli uomini” (Filippesi 2, 6-7). È la logica dell’incarnazione che definisce la vera identità di Gesù Cristo. Ci ha fatto dono della salvezza non partendo dall’alto, dall’essere Dio, ma scendendo in basso accanto all’umanità, diventando uomo tra gli uomini, vivendo nella povertà di colui che spera solo nel Signore, nella povertà di un seme che muore senza veder i frutti, in un apparente fallimento. Lui, l’annunciatore definitivo della venuta del Regno di Dio, è stato consacrato proprio per portare questa buona notizia ai poveri, i primi destinatari dell’annuncio del Vangelo, i primi clienti, come i malati, i soffrenti, i peccatori. Di conseguenza questi poveri sono anche Beati!
Carissimi, vi invito a ripensare maggiormente al valore e al significato della carità che proviene dalla Spirito Santo, vissuta da Gesù e comunicata a noi, tramite l’ordinazione. Come l’apostolo Pietro e Giovanni, non abbiamo da offrire al mondo “né argento né oro” (Atti 3,6), ma soltanto possiamo donare la carità pastorale, che prima di essere un compito stringente o un dovere da misurare e valutare a partire dalle proprie capacità e possibilità, è prima di tutto una partecipazione alla stessa donazione d’amore di Gesù Pastore che ci dà la forza e il coraggio per donarci “oggi” alla comunità e alla Chiesa. La carità pastorale è dono dell’unzione dello Spirito Santo che, scesa in pienezza su Gesù, si riversa su di noi. L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Pastores dabo vobis, al n. 23 ci ricorda che “la carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote” E nel paragrafo prima afferma che “il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla chiesa, a immagine e in condivisione con il dono di Cristo… Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l’amore di Cristo per il suo gregge”. Papa Francesco nella sua prima omelia della Santa Messa del Crisma, con l’immagine dell’unzione, ricordava a noi preti che bisogna uscire da noi stessi e andare nelle periferie, dove c’è dolore e sofferenza, a portare il Vangelo, per incontrare così il Signore e per sperimentare l’efficacia redentrice della grazia e non a fermarci alle autoesperienze o introspezioni reiterate. In questa prospettiva consideriamo la povertà e la sobrietà di vita come un tratto importante della nostra identità di presbiteri e di diaconi, che deriva dal sacramento dell’ordine ricevuto, che ci conforma a Cristo e che siamo chiamati a vivere come una modalità di declinazione concreta nell’oggi e nella storia della carità pastorale. Una scelta limpida e forte da farsi nella coscienza e nel cuore. Il cammino della spiritualità sacerdotale ci porta all’educazione del cuore, ossia dell’io più profondo della persona, al centro del suo essere, di quello spazio dal quale scaturiscono decisioni e scelte libere e responsabili. È un’opera educativa che non si conclude mai e che è destinata ad arricchire la nostra vita di ogni virtù, perché “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Matteo 6,21). In particolare, in quest’anno pastorale, siamo chiamati ad educare il nostro cuore alla virtù, meglio al tesoro, della povertà evangelica, la cui vera comprensione, come ricordavo nella lettera pastorale “Toccare la carne di Cristo”, ha il suo punto di partenza nella contemplazione di Gesù che “da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinzi 8,9). Per questo siamo chiamati alla testimonianza personale di una vita evangelicamente povera e ad educare le nostre comunità a vivere fino in fondo la beatitudine della povertà. La testimonianza della povertà comporta una vita semplice e sobria, sia nei comportamenti che nelle scelte concrete dell’uso dei beni e del denaro. La povertà non è soltanto osservanza di convenienze esteriori per ragione di opportunità pastorale o per non dare scandalo ai fedeli, ma prima di tutto è una decisione di custodire gelosamente la scelta di configurazione a Cristo, scelto come il tutto della nostra vita. Opportunamente la Presbiterorum Ordinis, al n. 17 ci ricorda: “Mossi perciò dallo Spirito del Signore, che consacrò il Salvatore con l’unzione e lo mandò ad evangelizzare i poveri. i presbiteri – come pure i vescovi – cerchino di evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo indurre i poveri ad allontanarsi, e più ancora degli altri discepoli del Signore vedano di eliminare nelle proprie cose ogni ombra di vanità. Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa”. Non c’è demonizzazione dei beni, ma diffidenza verso l’ostentazione e il loro accumulo, perché i beni schiavizzano, le ricchezze alienano e l’accumulo di ricchezze, pure per noi sacerdoti, intontisce spiritualmente e rende il cuore duro e insensibile ai bisogni degli altri.
Desidero offrire alcune indicazioni, suggerimenti e atteggiamenti per uno stile di vita povero e sobrio, per noi presbiteri, diaconi, consacrati/e e per tutti i fedeli laici. Certo, nella Chiesa tutti i fedeli sono chiamati alla povertà, sia pure in modi e gradi differenti tra loro. Ma è altrettanto vero che al presbiterio è donata come grazia e richiesta come impegno una forma propria di povertà, intrecciata con la carità e con il dono di tutto noi stessi, e delle nostre cose, per i tanti bisogni e necessità delle persone. Una povertà evangelica posta al servizio di una Chiesa discepola del Cristo povero. Ha scritto Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: “Solo la povertà assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell’apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad « andare », senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro” (n.30).
° Una povertà, quella presbiterale, che va considerata come una virtù, come un dono, non a sé stante, ma intimamente congiunta con i diversi valori ed esigenze della vita del prete, tutti confluenti nell’unica fondamentale dimensione del seguire Cristo nel suo donarsi per amore. Una povertà che è obbediente per poter essere disponibili a servire il Vangelo. Non è forse povertà il rispondere alle molteplici esigenze che ci vengono rivolte dai fedeli, senza interporre come prioritarie le nostre esigenze personali? Non è povertà il lasciarsi plasmare dalla vita e dallo stile della comunità a cui siamo stati destinati, con la disponibilità di nuove destinazioni o forme di servizio? Non è povertà accettare l’anzianità o la malattia con la conseguente fatica di non poter svolgere un servizio ‘a tempo pieno’?
°° Una povertà che, secondo lo stile di vita del presbitero nella nostra Chiesa latina, è innervata dalla castità celibataria? Non è povertà l’accettare di vivere ogni legame umano con amore intenso e sincero, senza lasciarci condizionale da preferenze personali e interessi, che non sia la preferenza del Signore per ‘i piccoli’? Non è povertà saperci appassionare alle relazioni che nascono nel ministero, pure se limitate nel tempo e sempre disponibili a vivere nuove e differenti relazioni? Non è povertà l’accettare momenti di solitudine e di fatica come occasioni per riscoprire la bellezza e la gioia del ‘rimanere con il Signore’? Le tre dimensioni della povertà, dell’obbedienza e della castità chiedono di essere intrecciate insieme e di essere accolte e vissute con la grazia che ci viene da Gesù Sacerdote, perché siano al cuore della nostra identità presbiterale e alla radice della fecondità del nostro sacerdozio ministeriale.
°°° Una caratteristica dei preti friulani e veneti è di vivere il ministero vicini alla gente. Non abbiate paura del confronto con le condizioni di vita della gente, confronto che talvolta è per noi motivo di imbarazzo: abbiamo lasciato tutto e ci siamo sentiti affascinati dalla chiamata del Signore al radicalismo evangelico, però a noi i beni materiali non mancano, come la sicurezza per il futuro, mentre ad alcune persone mancano la serenità e il necessario, causa la povertà ancora presente e diffusa nel nostro territorio. Povertà materiale, ma ancor più grave quella spirituale, affettiva, la mancanza di senso della vita con la ricerca di false gioie, come le dipendenze dall’alcool, dalla droga e dal gioco d’azzardo, sia per i giovani e i meno giovani. Una povertà che diventa per noi scelta di uno stile personale di vita povero e sobrio. Sul problema della povertà, infatti, si gioca la qualità dell’umanità e della fede del prete oggi. La povertà ci chiede di entrare nelle case, di andare nelle periferie dell’umanità; e per far questo occorre essere poveri e semplici, capaci di ascolto e di condivisione. Per questo è una povertà ‘fragile’, perché il contesto in cui viviamo nel mondo occidentale, è quello di un paese ricco, di una chiesa ricca, con mezzi che assicurano il nostro sostentamento. Diciamocelo senza paura: per noi preti non è facile essere poveri. Occorre scegliere di essere povero. Un aspetto che ci deve far riflettere seriamente è quello relativo all’uso dei soldi. Ricordiamo quanto ha detto san Paolo nel suo testamento spirituale: “Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani… così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!” (Atti 20,33-35). L’avidità, l’avarizia e la brama di possedere e di accumulare beni e denaro si può insinuare nella vita del prete e del diacono: e più si va avanti nell’età, più aumenta la tentazione per la paura del futuro, della vecchiaia e dell’incertezza del domani. Servirsi del denaro e non servire il denaro! Papa Francesco, nell’omelia del 18 ottobre 2018 ricordava: “La povertà come strada del discepolo. Il discepolo povero, perché la sua ricchezza è Gesù. Povero, perché non è attaccato alle ricchezze: primo passo. Povero, perché è paziente davanti alle persecuzioni piccole o grandi: secondo passo. Povero, perché entra in questo stato d’animo alla fine della vita che ci ricorda quello di san Paolo e di Gesù: abbandonato. …Che questa rivelazione sulla predilezione del Signore per la povertà, ci aiuti ad andare avanti e a pregare per i discepoli, per tutti i discepoli, perché sappiano percorrere la strada della povertà come il Signore vuole”. Ancora oggi tanti nostri confratelli che ci hanno preceduto sono ricordati per la loro generosità, per la povertà vissuta e per l’amore ai poveri e agli ultimi.
°°°° C’è un altro aspetto della povertà di noi consacrati, che ho ricordato nel ritiro di inizio anno, e che ora accenno: è quello che riguarda la nostra responsabilità nella gestione del denaro e dei beni materiali della Chiesa e che la Chiesa ci affida. Non siamo noi i proprietari dei beni delle nostre comunità, ma solo degli amministratori fedeli. Per amministrali è necessario e obbligatorio l’apporto di alcuni laici, seri e preparati che condividono le decisioni e le scelte operative, in una totale trasparenza. Così come, per trasparenza e onestà, ognuno di noi è sollecitato a redigere un testamento, disponendo che quanto avuto dall’esercizio del ministero, sia destinato per il bene della Chiesa, per i poveri e per le opere di carità. A questo proposito mi sento di ringraziarvi di cuore, perché fa bene a noi e a tutto il popolo di Dio sapere che noi, vescovi, presbiteri e diaconi, da anni rinunciamo ad uno stipendio che consegniamo il Giovedì Santo a favore del Fondo diocesano di solidarietà per ‘toccare la carne di Cristo’ alleviando la sofferenza e povertà di tanti nostri fratelli e sorelle che sono nel bisogno.
Carissimi presbiteri e diaconi, la santa Messa Crismale, con la ricchezza dei suoi segni, ci assicura ancora una volta che Dio, nel suo Figlio Gesù “che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Apocalisse 1,5), ci accompagna e ci previene nel cammino della nostra fedeltà, e ci invita a rendergli grazie perché, al di là della nostra debolezza, continua a plasmarci nell’unità di questo presbiterio e a donarci la forza di accogliere e vivere il dono della povertà evangelica. Discenda abbondate su tutti noi, anche attraverso la rinnovazione delle promesse fatte nell’ordinazione, l’unzione rinnovata dello Spirito Santo, e con l’orazione conclusiva di questa santa Eucaristia, preghiamo Dio onnipotente perché ci conceda che “rinnovati dai santi misteri, diffondiamo nel mondo il buon profumo del Cristo”.