La rivincita dell’Italia dei piccoli borghi

In tanti paesini zero contagi. Un’esistenza sostenibile che insegna all’economia

Questa è la fiaba del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. I paesi destinati a perdere abitanti a ogni censimento si sono dimostrati i più resistenti al coronavirus. Il piccolo è ritornato bello. Incontaminato. L’Italia “a zero contagi” è quella dei borghi inerpicati su colline e montagne, quella dei tanti punti trascurati sulle cartine geografiche, alcuni dei quali indicano luoghi che sono già stati divorati dalla vegetazione selvaggia, occupati da una fauna fuori controllo, ormai difficili da raggiungere. Grumi di rovine dove anche la memoria è ormai sbiadita. Ma altri punti sono ancora comunità vive, che hanno fermato anche questo tipo di epidemia assai aggressiva. Ora alcuni archistar rivalutano questi luoghi per il rilancio di una vivibilità senza eccessive paure: “Fermiamo lo spopolamento”. Potrebbe essere la loro rivincita. Resta aperta però la domanda di sempre: come si fa a vivere se aumentano i disagi? Alcune risposte cominciano a ridisegnare un po’ di futuro, se non altro impostato su uno stile di vita più sostenibile, impastato di tanta essenzialità. Si tratta di dare continuità ai piccoli segni positivi. Non è passato tanto tempo da quando intrapresi un viaggio nel Friuli dei paesini per raccontare i segni di risveglio. Trovai alcuni giovani intenti a ripristinare rapporti equilibrati tra economia e ambiente. Stavano sperimentando delle attività “multitasking” mettendoci tanta passione nel lavoro: coltivazioni di nicchia (non quelle legate agli interessi delle grandi catene commerciali), allevamenti “puliti”, trasformazione dei prodotti, un po’ di artigianato, di turismo e di marketing. Piccole filiere che creavano reddito. In fin dei conti, creatività e innovazione allargano le opportunità. Quei ragazzi aggiungevano alle varie sensibilità la cura del territorio, come valore aggiunto di offerte locali ricche di storia, cultura e tradizioni. Imprecavano e si battevano contro una burocrazia ingarbugliata e una fiscalità avida, che erano considerate da loro come una piaga, al pari di quella delle cimici. Uno di quei giovani, mentre sussurrava ai suoi animali da latte, mi sintetizzò la sua semplice filosofia: “La mattina, quando mi sveglio, il mio sguardo si perde nelle varie sfumature di verde delle colline. L’aria è pulita, non c’è il caos del traffico. Il lavoro è tutto mio, lo svolgo senza condizionamenti. Mi sento libero, al punto da non chiedere nulla di più del necessario per vivere con dignità”. Sono tuttora i segni di una gioventù che cerca l’essenzialità della vita.Oggi il virus ci mette del suo. Chiede quel distanziamento fisico che nei borghi già c’è, non essendoci sovraffollamento, pur restando solido il valore “sociale” di uno stile di vita carico del senso di comunità inteso come responsabilità del bene comune. Il salto di qualità potrà avvenire con un maggior sostegno alle tecnologie per far entrare un po’ di mondo in più nelle abitazioni, mentre gli abitanti se ne stanno immersi nel loro ambiente naturale. Ecco che cosa occorrerebbe: favorire quel poco di rigenerazione urbana possibile, potenziare i servizi essenziali, strappare alcune aree ai guai idro-geologici, senza togliere risorse insistendo con una fiscalità eccessiva (che non può essere quella delle città) e una burocrazia opprimente.