Libertà:un sogno, anzi un bisogno

E' stato ucciso un uomo che ha provato ad essere libero e non la libertà, non il suo sogno né tantomeno il suo bisogno. Lo hanno testimoniato le migliaia di russi che, sfidando tutti insieme - e ciascuno sulla propria pelle - la polizia del regime, hanno sfilato in silenzio davanti alla salma del politico morto nel penitenziario più lontano dalla civiltà, se civiltà è quella che elimina fisicamente chi la pensa in maniera diversa.

E’ stato ucciso un uomo che ha provato ad essere libero e non la libertà, non il suo sogno né tantomeno il suo bisogno. Lo hanno testimoniato le migliaia di russi che, sfidando tutti insieme – e ciascuno sulla propria pelle – la polizia del regime, hanno sfilato in silenzio davanti alla salma del politico morto nel penitenziario più lontano dalla civiltà, se civiltà è quella che elimina fisicamente chi la pensa in maniera diversa.

Il funerale, avvenuto venerdì primo marzo nella chiesa ortodossa dell’icona della Madre di Dio “Lenisci i miei dolori” alla periferia di Mosca, ha mostrato al mondo e a chi la Russia governa che il sogno e il bisogno della libertà non sono stati sradicati. I russi temono la repressione, questo sì, ma come non comprenderli data l’efferatezza dei metodi di convincimento?

Senza fare di nessuno un eroe immacolato, va detto che quel sogno di Russia libera resta l’eredità da attuare da chi vorrà, potrà, o meglio ancora oserà raccoglierla.

In questa storia, però, ci sono altre libertà e altre azioni di coraggio che pesano e hanno pesato. Quella della madre, Lyudmilla Navalnya, ferma a chiedere il corpo del figlio, anziana Golia contro un gigante quasi onnipotente come Putin, a cui dopo cinque giorni di inutili richieste ha osato rivolgersi direttamente. Madre prima e al di sopra di ogni lettura politica nella sua richiesta, madre che ricorda lo smarrimento di Maria: “Hanno tolto il mio Signore e non so dove l’abbiano deposto” (Giovanni, 20,13). Madre che non commenta e non maledice, ma inesorabilmente chiede per avere per l’ultima volta tra le braccia il corpo che conobbe bambino e chiede un luogo dove seppellirlo “come ogni essere umano merita” (queste le sue parole).

A fianco a lei, sia pure a migliaia di chilometri di distanza pena l’arresto – preludio a non si sa quale fine – Yulia, la moglie di Navalny, una sfinge di saldezza che solo davanti all’Europarlamento ha ceduto ad un attimo di umana commozione con un sospiro subito trattenuto. Le sue parole sono state però forti, coraggiosissime, sfidanti un potere che sa arrivare dove decide, senza limiti di chilometri o di morale. Così Yulia ha chiamato l’avversario politico del marito con il nome che ha ritenuto giusto e con parole che solo lei ha osato: “Non abbiamo a che fare con un politico, ma con un maledetto mafioso. Putin è il leader di una banda criminale organizzata”. In quel momento, prima che madre che pensa ai propri figli, Yulia è stata la moglie impavida che mette in pratica la promessa fatta al suo uomo nel messaggio di addio: “Cercherò di renderti orgoglioso di me”.

Che la Russia e i dissidenti siano un binomio ricorrente lo dice la storia e la cronaca lo conferma: nei gulag sono passati qualcosa come 18 milioni di persone, non solo sovietici. Ai nostri giorni il metodo non è stato dimenticato: confino e morti non sempre spiegabili accadono. L’elenco è lungo, sta in cronache e libri, ne ricordiamo una parte: Sergei Yushenkov ucciso nel 2003 da un colpo di pistola al petto, il giornalista di Forbes Paul Klebnikov ucciso nel 2004 mentre era in macchina, l’indimenticabile altra giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaya uccisa nel 2006 nell’ascensore di casa sua per i suoi articoli sulla guerra in Cecenia e dopo di lei altri tre suoi collaboratori. Con analogo tempismo nel giorno del funerale di Navalny è stato arrestato e multato il direttor di Novaja Gazeta, Sergej Sokolov: e più che i rubli di ammenda (per aver screditato nei suoi articoli le forze armate russe) pesa l’avvertimento. E poi, ancora, Alexander Litvinenko ex agente del Kgb divenuto poi dissidente del regime di Putin ucciso nel 2006 secondo lo stile del regolamento di conti, Boris Berezovsky trovato morto nel 2013 nella sua casa nel Regno Unito, Boris Nemtsov rivale di Putin ucciso a due passi dal Cremlino con un colpo di pistola alla schiena nel 2015, Dan Rapoport molto critico contro la guerra in Ucraina trovato morto nel 2022 a Washington, Ravil Maganov pure contrario alla guerra in Ucraina morto a settembre 2022 cadendo dalla finestra, stessa sorte per Pavel Antov che si trovava in India, fino a Prigozhin morto a causa della caduta dell’areo. Tra gennaio e luglio 2022 almeno altri otto manager sarebbero morti in circostanze poco chiare, mentre The Global News ha quantificato in 56 i giornalisti colpiti dal 1999 ad oggi dal regime di Putin: 25 uccisi, 31 arrestati e in carcere.

Dopo tutte queste provocate morti e dopo quella di Aleksei Navalny la domanda che resta è quella che si è posta la vedova per trovare la forza di parlare: “Come possiamo aiutarti?”. Lei l’ha rivolta al marito perduto, noi leghiamola alla causa della libertà. Quella libertà la cui ricerca sta insanguinando il mondo, che ancora “libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, canto I vv. 71-72).