L'Editoriale
La trincea casa per casa
La brutalità delle guerre di oggi non resta circoscritta ad eserciti e militari ma entra nelle città e nei villaggi, ruba le vite di chi trova, passa casa per casa, amplia i fronti ad ogni androne, lancia missili sui tetti di palazzi e ospedali. Per colpire il governo si massacrano civili, per colpire una nazione si uccidono o torturano o rapiscono i cittadini. E’ successo in Siria, sta succedendo in Ucraina e nella striscia di Gaza, come nei kibbuz il 7 ottobre.
Quante volte abbiamo letto o studiato che al cominciare di una guerra tutti pensavano che sarebbe stata breve? Purtroppo la storia lo ha quasi sempre smentito con la crudeltà dei fatti. E così, trascorsi due anni dal 24 febbraio 2022 quando la Russia ha iniziato l’invasione dell’Ucraina, all’alba del terzo anno nessuno parla di smettere: nei primi mesi del conflitto si sono succeduti tavoli di pace che non hanno portato a niente e lì si sono fermati. D’altronde troppi pronunciamenti, dall’una come dall’altra parte, hanno esplicitamente confermato l’intenzione di non fermarsi: quando gli obiettivi sono uguali e contrari trovare la quadra è un atto di assoluta volontà e la volontà manca.
E’ una guerra – quella tra Russia e Ucraina – che stiamo rischiando di scordare, o lasciare sfumata in sottofondo, storditi da un nuovo conflitto che, dopo gli orrendi attentati del 7 ottobre a danno di civili israeliani, sta insanguinando la striscia Gaza e colpendo civili palestinesi, tanto che in pochi mesi si sfiorano i trentamila morti, per la maggior parte donne e bambini.
E’ una guerra – quella tra Russia e Ucraina – che ha creato un numero imprecisato di vittime, visto che le due nazioni in causa evitano la conta o almeno non la rendono esplicita. L’ufficio per i Diritti umani delle Nazioni Unite ha confermato la morte di oltre 10mila civili in Ucraina e il ferimento di altri 20mila da che è iniziata quella che Putin definisce operazione speciale, ma ha pure avvertito che il bilancio reale è molto più elevato: almeno 30mila civili e un numero tra 25mila e 70mila militari ucraini caduti. Fonti diverse, raccolte dall’Agi (Agenzia Giornalistica Italiana), presentano altre cifre: nell’agosto del 2023 il New York Times, citando dati provenienti da intelligence straniere (non degli stessi paesi in guerra) ha stimato in 70mila morti e 100-120mila feriti le perdite militari dell’Ucraina, in 120-170mila morti e 180mila feriti le perdite militari per la Russia; a fine gennaio il Ministro delle forze armate britanniche ha parlato di 350mila perdite russe tra militari morti e feriti; una cifra non troppo lontana da quella indicata dagli ucraini stessi: 392mila i soldati feriti dall’inizio del conflitto.
A questi vanno aggiunte le migliaia di cittadini morti durante i pesanti assedi alle città, come a Mariupol, e gli altri 25mila ritrovati nelle fosse comuni, come a Bucha e non solo lì. Perché la brutalità delle guerre di oggi non resta circoscritta ad eserciti e militari ma entra nelle città e nei villaggi, ruba le vite di chi trova, passa casa per casa, amplia i fronti ad ogni androne, lancia missili sui tetti di palazzi e ospedali. Per colpire il governo si massacrano civili, per colpire una nazione si uccidono o torturano o rapiscono i cittadini. E’ successo in Siria, sta succedendo in Ucraina e nella striscia di Gaza, come nei kibbuz il 7 ottobre.
E’ una danza macabra questo balletto di cifre ma è pure doveroso guardare in faccia alla realtà dei fatti, a cosa la guerra comporta: morte e distruzione, come ripete inascoltato Papa Francesco.
E’ anche una guerra – quella tra Russia e Ucraina – nella quale sono spariti tanti bambini ucraini, tanto è vero che esiste un mandato di arresto internazionale per il presidente russo Putin e la Commissaria russa per i diritti dell’infanzia, Maria Lvova Belova, per crimini legati alla deportazione di minori. Anche in questo caso i numeri esatti non ci sono: Kiev parla di 20mila bambini ucraini portati via, di cui 4mila orfani. Mikola Kuleba, presidente della Commissione dei diritti dell’infanzia ucraina dal 2014 al 2021 e oggi a capo dell’organizzazione no profit “Save Uktraine” – che mira a riportare a casa i bambini rapiti – in un’intervista rilasciata all’Avvenire (21 gennaio 2024) ha quantificato in un milione e mezzo i giovanissimi ucraini portati fuori dalla nazione e che vivono tra Federazione russa e zone occupate. Una cifra enorme nella quale sono contemplati tutti i deportati non solo nei due ultimi anni di guerra ma anche nel precedente decennio di scontri nel Donbass. Ad oggi, alcuni sarebbero in Russia, altri in Crimea; alcuni sono piccoli, altri sono ragazzi: purtroppo, perse le tracce, non si ha modo di sapere a quanti sia stato cambiato il passaporto o il certificato di nascita.
L’Ucraina entra nel terzo anno di guerra in una posizione alquanto delicata: la controffensiva non è andata come sperava e i russi mostrano la loro potenza numerica e militare. Gli ucraini, che hanno bisogno di energie nuove e di armi, sanno che il loro futuro è appeso agli aiuti degli stati sostenitori: per mesi i miliardi di euro e di dollari promessi da Unione europea e Stati Uniti sono stati in forse e, se anche quelli europei sono stati adesso confermati, da parte Usa si aspetta ancora l’ok della Camera. Pesa la stanchezza del protrarsi del conflitto e pesano le elezioni americane, con la prospettiva del ritorno di Trump contrario all’ulteriore invio di risorse americane: elementi che destabilizzano i rapporti fino a qui instaurati.
Mentre i grandi temporeggiano, la storia di sempre si ripete: chi decide di scatenare la guerra aspetta il trionfo che gliene verrà, chi la subisce – se sopravvive – potrà raccontarne la distruzione, le città e case rase al suolo, le persone ridotte a fantasmi nascosti nel gelo dei seminterrati a piangere pezzi di famiglia morti, dispersi e rapiti. Perché nella guerra la gloria è incerta, la distruzione invece è certissima.