L'Editoriale
AI: terapia o potenziamento?
Un chip impiantato nel cervello di un tetraplegico per vedere se legge l'intenzione di muoversi e sa trasmetterla ad un robot: è davvero una prospettiva concreta? E’ aperta a tutti sia nel senso di una possibile ampia diffusione sia in termini economici di quello che è per ora un esperimento in corso dai risultati tutti da dimostrare? E soprattutto: ci si fermerà qui?
Difronte alle tecnologie che avanzano sempre più velocemente, sorprendendo per le sempre nuove frontiere, siamo un po’ tutti come l’antico Giano bifronte: con una faccia guardiamo avanti curiosi di farci sorprendere dai prodigiosi risultati, dall’altra guardiamo indietro preoccupati che il gioco prenda la mano e che quel chiaro confine, fino a qui esistente, tra la macchina che obbedisce e l’uomo che comanda si assottigli fino all’impensabile. E’ con questa stessa ambivalenza che il mondo ha accolto l’ultimo annuncio del magnate Elon Musk: un chip impiantato nel cervello di un tetraplegico, offertosi volontario – così si è letto – per la sperimentazione sull’uomo. L’intento è quello di fargli recuperare il movimento grazie alla potenza del pensiero. Detto con maggior precisione: il chip – della grandezza di un bottone ma con migliaia di elettrodi -, dovrebbe essere in grado di cogliere dal cervello del paziente l’intenzione di fare un movimento e trasmetterla ad un robot affinché questo compia l’azione pensata al posto di chi è paralizzato o paraplegico.
Detta così come non cogliere favorevolmente questa prospettiva? Ridare una facoltà, naturale e umana, a chi l’ha purtroppo perduta pare una magia buona che l’intelligenza – umana – supportata da quella cosiddetta artificiale sta provando ad ottenere.
Ma, si è detto, c’è sempre un’altra faccia della medaglia e anche in questo caso non mancano domande in cerca di risposta: è davvero una prospettiva concreta? E’ aperta a tutti sia nel senso di una possibile ampia diffusione sia in termini economici di quello che è per ora un esperimento in corso dai risultati tutti da dimostrare? E soprattutto: ci si fermerà qui?
A monte di questo singolo caso, c’è infatti la questione dell’integrazione uomo macchina: un qualcosa che, fino all’altro ieri, l’immaginario collettivo relegava nell’ambito della letteratura e della cinematografia. Ci sono storie che abbiamo letto e visto senza timore per il semplice fatto che nella nostra mente erano catalogate come fantascienza o letteratura distopica. Raccontavano di casi ipotetici e fantasiosi, indagandone azioni e reazioni: dal primissimo Frankenstein della scrittrice inglese Mary Shelley (1818), fino a lavori più recenti che si concentrano proprio sull’integrazione uomo-macchina: da Ian McEwam con La macchina e me (2019), dove un uomo acquista un robot che gli stravolgerà la vita, al recentissimo Lettere a una fanciulla che non risponde dell’italiano Davide Orecchio, in cui un uomo si innamorarsi della robot Livia (e, tanto per capire, le chiede: “Accetti il termine vita se parliamo di me? Acconsenti che io affermi di essere vivo?”). Al cinema si va dal tenero Io e Caterina (1980) in cui Alberto Sordi si misura con la robot cameriera a film che hanno lasciato un segno anche nel vocabolario come Matrix (1990) e i suoi deja vu e Avatar (2009).
Solo storielle? O l’arte, pescando negli strati più profondi della mente e nell’inquietudine della coscienza, sa captare e tradurre quell’eterno desiderio di andare oltre che è da sempre figlio dell’uomo? La conoscenza cercata cogliendo la prima mela nell’Eden, l’Ulisse dantesco che si spinge oltre le colonne d’Ercole… o la fantasia profetica di Verne autore de Dalla Terra alla Luna (1865).
Nel caso dell’esperimento del chip nel cervello, pur desiderando ardentemente che la tecnologia continui a farsi aiuto dell’uomo, il dubbio – umano, etico – si fa sentire: di che si tratta per davvero? E’ terapia o potenziamento? E’ ricerca di un beneficio o di un sostituto?
Perché se fosse aiuto e terapia, se funzionasse, se fosse possibile estenderla a chi ne ha bisogno: come dirle di no? Ma se così non fosse? Restano infatti alcune criticità.
Prima: è l’operazione di un privato che ha a disposizione cifre enormi inaccessibili alla ricerca pubblica e che può, senza vincoli, scegliere cosa sperimentare, quanto oltre andare.
Seconda: l’operazione non è stata resa nota tramite pubblicazione su apposite riviste scientifiche ma tramite social. Non averla pubblicata sui canali consueti per la scienza significa non avere condiviso dettagli e informazioni con l’intera comunità scientifica. Perché? E’ una riservatezza che mira a tutelare un affare economico privato, che nasconde dettagli e copre i precedenti (su animali)?
Terza: la società, data la riservatezza dell’operazione, è colta di sorpresa e anche la legislazione si trova chiamata in causa a cose fatte.
Quarta: una volta provato che l’esperimento ha avuto buon esito, i benefici diventeranno mai un bene pubblico a disposizione di chi potrebbe averne bisogno?
Non avendo le risposte, ma attenti ai progressi che l’ingegno umano sa compiere anche in aiuto agli altri (la mano robotica per dirne uno) si resta in bilico: affascinati dal nuovo ma con un grillo parlante che mette sull’attenti. Perché, per dirla con le parole usate da McEwan nel citato romanzo, la sfida e la tentazione dell’oltre sono potenti: “Era anelito religioso, corroborato dalla speranza, era il Sacro Graal della scienza… la creazione trasformata in realtà… Non appena divenne fattibile non ci restò altra scelta che provarci, e al diavolo le conseguenze”.