La legge e la vita

Strazia sapere l’esito della vicenda Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi ricoverata dalla nascita all’ospedale di Nottingham perché affetta da una rarissima malattia mitocondriale. e non perché non si sappia o, peggio, non si accetti che la vita e la morte appartengono a ciascun essere umano, Indi compresa; non perché si voglia imporre ad ogni costo un’esistenza, sia pure di dolore indicibile, purché esistenza sia.

Conosciamo l’esito della vicenda Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi ricoverata dalla nascita all’ospedale di Nottingham perché affetta da una rarissima malattia mitocondriale. Una storia che ha avuto ampia eco in Italia, seguita con un’apprensione e uno sconcerto diversi dallo stesso Regno Unito dove casi simili si sono succeduti e – stando così come è la legge che non solo li autorizza ma li impone alle famiglie – continueranno probabilmente ad accadere. I precedenti li ricordiamo: portano i nomi di Charlie Gard (2016) e Alfie Evans (2018), per citarne due di cui tanto si era parlato quando accaddero. Nel caso di Alfie, come per Indi, ci fu anche l’interessamento del governo italiano, venne coinvolta la Corte europea dei diritti dell’uomo, fu data la disponibilità da parte dell’ospedale italiano del Bambino Gesù di Roma ad accogliere il caso ma tutto fu, ieri proprio come oggi, inutile contro la sentenza dell’Alta Corte di Londra.

Strazia sapere l’esito: non perché non si sappia o, peggio, non si accetti che la vita e la morte appartengono a ciascun essere umano, Indi compresa; non perché si voglia imporre ad ogni costo un’esistenza, sia pure di dolore indicibile, purché esistenza sia.

E’ molto più profondo quello che si ribella dentro l’anima e la ragione insieme: viene dall’incomprensione della motivazione, ossia che la sospensione dei trattamenti sia “il migliore interesse della bambina”. E si ribella perché sa che non a legge di natura si è obbedito – quella che tutti fa nascere e poi morire -, ma a una sentenza che ha marciato spedita verso il distacco del respiratore, lo strumento che teneva la piccola in vita, ignorando tutti i tentativi di fermarla. Una sentenza che, negando l’ausilio di una macchina salvavita, ha deciso e imposto la morte, ignorando un coro di voci tese a bloccare il procedimento deciso. Un coro costituito da varie associazioni per la vita, dalla cittadinanza concessa dall’Italia, da quella dell’ambasciatore italiano a Manchester (diventato automaticamente il suo giudice tutelare), ma sopra ogni cosa ignorando la volontà dei genitori. Una volontà che si è battuta fino alla fine, provando e riprovando, cercando vie da percorrere e tutti i possibili ed impossibili appigli legali al solo fine – non lo si dimentichi – di salvare Indi, la loro bambina. Un lungo e penoso iter giudiziario che Dean Gregory, il papà della piccola, ha definito “un inferno”.

Sappiamo che questi sono casi molto controversi e che non li si affronta costruendo tifoserie, perché non si tratta di sfide giudiziarie o sanitarie. La “questione di vita o di morte” è sempre la questione delle questioni. In simili casi a lasciare del tutto sconfortati è il non comprendere come sia possibile, davanti ad una culla, decidere che quella vita vada spenta, decidere che quel respiratore non sia più disponibile per Indi.

Unica voce di conforto arrivata alla famiglia è quella di papa Francesco, che ha assicurato le sue preghiere per papà Dean, mamma Claire e per Indi “come per tutti i bambini che vivono nel dolore e rischiano la vita a causa della malattia o della guerra”. Il giovane padre si è dimostrato molto colpito dalle parole del papa che, con una semplice formulazione, ha fatto l’unica cosa che conta in casi così disperati: non far sentire soli coloro ai quali una simile sorte è capitata, dimostrare quel calore umano mancato in tutta la vicenda: quello di un cuore che comprende e non abbandona.