Ragazzino, portami un caffè

L'ultimo rapporto di Save the Children, “Non è un gioco”, lancia un allarme Italia: 336mila ragazzini tra 7 e 15 anni, pari al 6,8% della popolazione di quella età (1 minorenne su 15), ha avuto esperienze lavorative. Il che comporta abbandono scolastico oggi e, domani, incertezza lavorativa

Alla vigilia del primo maggio, in un’Italia ancora intrisa di inaccettabili divisioni sul 25 aprile e protesa a quelle che verranno per la festa del lavoro, vale la pena di dare attenzione ad un tema pertinente quanto taciuto: quello del lavoro minorile. Una piaga mondiale coralmente condannata, salvo poi essere premiata dal ricorso ad acquisti convenientissimi e resi tali dallo sfruttamento di piccole mani. Mani in età di impugnare penne e matite colorate.

L’ultimo rapporto di Save the Children, “Non è un gioco”, presentato lo scorso 4 aprile, offre una panoramica globale sul fenomeno ma lancia pure un allarme Italia: 336mila ragazzini tra 7 e 15 anni, pari al 6,8% della popolazione di quella età (1 minorenne su 15), ha avuto esperienze lavorative; il 20% dei 14-15enni ha lavorato prima dell’età consentita (1 su 5). Eppure in Italia la Costituzione (artt. 37 e 34) e la Legge 977 del 1967 con successivi sviluppi tutelano i minorenni e la formazione scolastica (10 anni obbligatori), rendendo possibile il lavoro solo dai 16 anni compiuti.

Nel mondo sono 160 milioni i bambini tra i 5 e i 17 anni che subiscono lo sfruttamento lavorativo, quasi la metà – 79 milioni – sono costretti a lavori duri e pericolosi che mettono a rischio salute e sviluppo psico-fisico.

A tal confronto le cifre italiane possono sembrare di poco conto ma non lo sono le conseguenze tanto per i ragazzi – la loro vita e il loro futuro – quanto per la nazione. Il lavoro minorile compromette sempre e ovunque i diritti fondamentali di bambine, bambini e adolescenti, poiché nega la possibilità di crescere in modo sano, compromette o impedisce il percorso scolastico, toglie possibilità di ampliare la conoscenza e di sviluppare intelligenze. A distanza tutto questo si ripercuote sul paese d’appartenenza che, persa la possibilità di far fiorire le menti, si carica di persone a più elevato rischio indigenza nel caso in cui chi oggi li sfrutta decida domani di andare altrove.

L’articolo 32 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC) sancisce “il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico”; la Convenzione n. 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) ratificata dai 187 stati membri, garantisce “che tutti i bambini siano liberi dal lavoro minorile, anche nelle sue peggiori forme”. Ma – si dice – la carta si fa scrivere.

Il rapporto di Save the Cildren sottolinea pure che i dati emersi sono da ritenersi sottostimati, dato che nel nostro paese manca la rilevazione sistematica del fenomeno, che emerge solo in occasione di qualche studio.

Non meno interessante è scoprire dove e come i minorenni italiani hanno fatto esperienze precoci di lavoro: si va dalla ristorazione (25,9%), alla vendita nei negozi e attività commerciali (16,2%), ma – modernità dei mezzi non dei risultati – anche nel mondo dell’online (pubblicità, video, contenuti social a pagamento, compravendite online) tipologia denunciata dal 5,7% degli intervistati. Altra nota dolente: quasi la metà dei minori ascoltati ha dichiarato di aver trovato lavoro tramite i propri genitori.

La gravità di questi dati sta nel fatto che chi lavora così presto non studia o lo fa male e in modo infruttuoso. Il lavoro minorile è legato, come causa o effetto, alla dispersione scolastica, altro punto critico per l’Italia. Lo ha fotografato l’Istat: nel 2021 la quota dei giovani tra i 18 e 24 anni che sono usciti dal sistema di istruzione e formazione senza un diploma o una qualifica è stata del 12,7%, contro la media europea del 9,7%.

I minori che lavorano prima dei 16 anni compiuti lo fanno anche in orario scolastico, registrano assenze ripetute, perdono il tempo per lo studio. Questo innesta un circolo vizioso: meno studio significa risultati scolastici scadenti, bocciature ripetute e abbandono della scuola. Il tutto, spesso, per qualche lavoretto saltuario che si esaurisce in fretta e li lascia in una condizione di inattività.

I “Neet”, giovani che non studiano e non lavorano, sono figli anche di questa dinamica e, al di là del nome straniero, il fenomeno è molto italiano: nel 2022 i ragazzi e ragazze tra 15 e 29 anni che si trovavano in questa situazione sono stati più di 1 milione e 500mila, il 19 % della popolazione della citata fascia d’età. Cifre che ci collocano al secondo posto in Europa, appena sotto la Romania.

Questo poco idilliaco quadro è stato presentato a Roma in un convegno cui era presente anche la ministra del Lavoro, Calderone. I lavori si sono chiusi con l’impegno alla costituzione di un Comitato Scientifico di esperti “per approfondire il fenomeno e promuovere così misure adeguate al suo contrasto” e con l’auspicio della “rapida istituzione della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia”. Speriamo non si dimostrino parole d’occasione.