L'editoriale
Il palco delle polemiche
Il festival si incastona quest’anno tra due giornate che ricordano gli orrori di cui gli uomini sono stati capaci: quella della memoria il 27 gennaio e quella del ricordo il 10 febbraio. Se le parole contano, se le testimonianze servono, se l’affetto che molti nutrono per la senatrice Segre è vero, allora dimostriamo di aver compreso: non macchiamoci di indifferenza.

Il palco
delle polemiche
Simonetta Venturin
In Italia il festival della canzone riesce sempre a monopolizzare le cronache per almeno una settimana ma quest’anno, complice l’annuncio della probabile presenza di un video messaggio del presidente ucraino Zelensky, il valzer delle polemiche è cominciato in anticipo rispetto all’andata in onda (dal 7 all’11 febbraio).
Senza puntare il dito contro uno o l’altro commentatore, contro l’una o l’altra simpatia politica che imposta prospettive e guida pareri, la questione di fondo resta quella dell’opportunità o meno della presenza di un capo di stato di un paese in guerra in un contenitore di canzonette.
I favorevoli citano il precedente più eclatante: la partecipazione a Sanremo del presidente russo Gorbaciov e signora, ospiti nel 1999. Al di là del singolo uomo politico sul palco, va però ricordato che la politica in senso lato non è mai assente dall’Ariston: per le scelte degli ospiti, per gli argomenti trattati, per i testi stessi delle canzoni che, tra il serio e il faceto, non si dedicano solo ai palpiti del cuore ma mettono in musica assilli e pensieri dei tempi di cui sono figlie. Così nel corso degli anni oltre a cantanti e attori sono stati ospitati sindacalisti, scienziati e discriminati di ogni sorta, dai diversamente abili ai malati, ciascuno a perorare la sua causa o testimoniare una situazione.
Temi attuali o scottanti si ritrovano pure nei testi delle canzoni. Nessuno ha dimenticato: “Chi non lavora non fa l’amore” della coppia Celentano-Mori cantata quando le tensioni tra industriali e operai infiammavano le piazze; “Signor tenente” di Giorgio Faletti dopo le stragi che uccisero Falcone e Borsellino; “L’amore rubato” con cui Barbarossa cantò la violenza su una donna; “Argento vivo” di Daniele Silvestri o “BillY Blu” di Marco Sentieri su disagio giovanile e bullismo. L’edizione 2019 si è distinta per un ventaglio di testi sensibili al tema migranti dopo naufragi clamorosi e la politica dei respingimenti: li hanno cantati Motta, i Negrita, i The Zen Circus (“le porte aperte, i porti chiusi…”) e Fiorella Mannoia con la sua “Il peso del coraggio”. Temi difficili e divisivi hanno dunque già trovato spazio a Sanremo. Non fa eccezione la guerra in corso tra Russia e Ucraina a cui si guarda da prospettive diverse e, purtroppo, senza ancora una prospettiva di soluzione o sospensione.
Se, come ci auguriamo che sia, non è tanto l’adombrata spensieratezza italica a infastidire, quanto il timore del tenore del messaggio che da Zelensky potrebbe venire – una richiesta di sostegno in armi e risorse per poter continuare a difendersi – allora si ricordi che l’Italia ha deciso il sesto invio di armi ben prima del Festival. Si ricordi pure che l’Occidente, Usa compresi, non è mai stato così coeso e che tale compattezza è il ponte attraverso cui transitare alle nuove generazioni, il principio del rispetto delle democrazie altrui contro le ingiustificate invasioni armate.
Certo, non si è al contempo così ciechi o spensierati da non temere che invio dopo invio anche la guerra diventi tollerabile o addirittura ordinaria. E non si è così ottusi da non vedere come il confine tra accettabile (invio di armi difensive) e non accettabile (invio di armi aggressive) si faccia sempre più sottile. E questo doverosamente spaventa, aprendo scenari di guerra che sono e restano da respingere.
Nella storia, poi, le canzoni non sono state lontane dalla guerra, ogni grande conflitto ha avuto le sue. Ai nostri giorni lo dimostrano i vincitori dell’Eurosong (festival della canzone europea tenutasi nel maggio 2022), gli ucraini della Kalush Orchestra con la canzone “Stefanìa”, scritta prima del 24 febbraio e diventata un inno al paese e alla pace perduti.
Si tenga presente che è all’aggredito e non all’aggressore che si dà spazio. Sono davvero così fuori luogo o fastidiosi i minuti lasciati per un appello, ricordando la sua gente e il suo paese stremati da oltre undici mesi di attacchi?
Il festival si incastona quest’anno tra due giornate che ricordano gli orrori di cui gli uomini sono stati capaci: quella della memoria il 27 gennaio, per non dimenticare i sei milioni di ebrei passati per le armi o per il camino, e quella del ricordo il 10 febbraio, per non chiudere gli occhi sulle migliaia di infoibati che luoghi a noi vicini hanno inghiottito. Se le parole contano, se le testimonianze servono, se l’affetto che molti nutrono per la senatrice Segre è vero, allora dimostriamo di aver compreso: non trasformiamoci nei carnefici che uccisero la sua come molte famiglie di allora, allo stesso modo colpevoli non di una violenza diretta ma di un gesto ordinario e terribile come l’indifferenza. Tocca a noi, adesso, non girarci dall’altra parte.