Il coraggio di andare

Abramo obbedì all'ordine di lasciare la terra di Ur, Francesco a quello di farvi ritorno.Non lo hanno fermato né il Covid 19 né il terrorismo figlio di uno Stato Islamico che, pur dichiarato sconfitto - dopo aver seminato la morte sui luoghi che Francesco ha visitato -, è invece risorgente al nord del paese, ai confini con l'Iran.

Abramo obbedì all’ordine di lasciare la terra di Ur, Francesco a quello di farvi ritorno. Un imperativo che già il suo predecessore Santo, Giovanni Paolo II, sentì fortemente ma che non poté realizzare. Francesco, incurante di ostacoli e rischi è volato in Iraq. Non lo hanno fermato né il Covid 19 né il terrorismo figlio di uno Stato Islamico che, pur dichiarato sconfitto – dopo aver seminato la morte sui luoghi che Francesco ha visitato -, è invece risorgente al nord del paese, ai confini con l’Iran.

Il coraggio di andare è stato più forte di ogni prudenza: questo papa non predica il dialogo lo compie e non c’è posto più bisognoso di incontro di quello dove lo scontro uccide, dove a lungo hanno parlato le armi con il loro alfabeto di terrore e morte. Questo papa non predica la pace, ne cerca adepti là dove la guerra – una guerra anche anticristiana – ha distrutto uomini e cose, esiliato forzatamente, squarciato ogni normalità.

Erano oltre un milione i cristiani nelle terre d’Abramo, culla primigenia, ne sono rimasti 300 mila. Molti sono fuggiti, molti altri sono scritti nel libro dei martiri, messi a morte dalla furia nera dell’Isis nel nome di una fede proclamata nemica. E’ per tutti loro che Francesco non ha voluto rimandare oltre.

Così è apparso come colomba di pace dopo il diluvio delle autobombe, dei kamikaze, delle esplosioni per le strade e nelle chiese, e col suo filo di voce (che contrasto con le urla e il terrore di chi lo ha preceduto) per tre giorni ha parlato incessantemente di dialogo e fratellanza. Col suo stile mite ha consegnato ai leader religiosi tutti, senza distinzione, il difficile compito di farsi costruttori di analogo dialogo, progettisti e capomastri di un mondo di pace possibile nel nome di un Dio che di tutti è padre, perché – come ha detto a Mosul, la terra più martoriata, capitale dell’orrore -: “Se Dio è il nome dell’amore, e lo è, ai suoi figli non è lecito odiare i fratelli”.

Certo, l’Iraq è lontano dalla nostra diocesi e noi non possiamo che immaginare la brutalità delle violenze subite, ma ci hanno aiutati a comprenderle la visita di mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare dei Caldei di Baghdad (2015) e la presenza nel Seminario diocesano (2016) di mons. Benham Sony di Bagdaede, vicino a Qaraqosh, che vide bruciata la sua chiesa e la sua biblioteca.

Sono tanti i momenti del viaggio del papa già consegnati alla storia: l’incontro di Ur, luogo di partenza di Abramo, landa desertica dominata dall’antica Ziggurat babilonese; la messa celebrata dalla chiesa di Baghdad dove, la sera della vigilia di Tutti i Santi del 2010, un commando di fondamentalisti lasciò senza vita quarantotto cristiani; le visite alle macerie di Mosul e Qaraqosh, la messa celebrata ad Erbil. Non meno salienti gli incontri con le autorità civili e religiose, le letture della Bibbia e del Corano, i Vangeli letti in arabo, i canti in aramaico su melodie orientali che hanno accompagnato le messe celebrate nei luoghi violati dalle mani sanguinarie dei seguaci dello Stato Islamico.

Avevano annunciato che sarebbero arrivati a Roma, possiamo raccontare che Francesco ha pregato a Mosul. Non è una rivalsa: il cristianesimo non segue le umane logiche della vendetta ma quelle divine e impervie dell’amore. Per questo Francesco era lì col suo filo di fiato, col suo passo zoppicante ma con tutta la sua salda volontà, fedele a quell’annuncio di fratellanza partito dal viaggio negli Emirati Arabi, sancito dal “Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” cofirmato con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. Un documento scritto nel 2019, continuato con appelli ripetuti, ribadito con l’Enciclica Fratelli tutti come col suo libro Diversi e uniti, e trionfato in questo 33° viaggio internazionale.

Una fratellanza che fa di papa Francesco l’erede non solo nominale del santo di Assisi di cui ha scelto di portare il nome otto anni fa (13 marzo 2013): dal Cantico delle creature all’incontro con il sultano è un’eco continua.

Francesco è impegnato nella sua – sia permesso chiamarla così – crociata di pace tra religioni e mondi. Un viaggio di prime volte (prima volta di un papa in Iraq) e di grandi incontri, come quello a Najaf con il novantenne grande ayatollah Alì al-Sistani, voce del mondo sciita, colui che di fronte alle stragi dell’Isis ha saputo richiamare alla compattezza contro il nemico, ribadendo che il terrorismo religioso non è l’islam. E Francesco lo ha ringraziato per questo.

Di solito, restano nell’olimpo degli eroi coloro che compiono imprese ritenute impossibili. Allora, se l’astronauta Amstrong ha definito l’allunaggio “un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità”, un papa nella terra dell’Isis e che da lì proclama la fraternità più forte del fratricidio non può che essere un capolavoro di Dio.