Giovanni Paolo II: da Lolek a Santo

Lunedì 18 maggio, a cent'anni dalla sua nascita, possiamo ricordarlo libero e radioso con gli scarponi ai piedi sulle amate montagne, o in preghiera davanti la Madonna nera di Czestochowa o stremato ma ancora aggrappato alla croce, comunque certi della sua instancabile presenza, pronto a ricordarci: "Non abbiate paura".

Lolek – lo chiamavano così da bambino – era un figlio di maggio, sbocciato nel 1920 a Wadovice in Polonia: “Totus tuus” fin nel calendario che una mano dal cielo disegnò. Nato il 18 del mese; ferito da un colpo di pistola il 13, nel 1981, giorno della devozione della sua vita: quella Madonna di Fatima che porta incastonata nella sua corona, come il diamante più prezioso, una delle due pallottole sparate per ucciderlo e che, invece, ne cambiarono l’immagine agli occhi del mondo. Fu la mano di Maria a deviare il colpo: mai tentennò il grande Karol su questa convinzione.

Il mondo, attonito di fronte al papa colpito, imparò ad amarlo di più. Lui che all’inizio della sua missione venne criticato per quella smania di andare in ogni angolo della terra. Ciechi gli occhi sul quel Crocifisso che portava al collo, in mano, nel cuore, in ogni pensiero: il papa era il mezzo con cui Cristo stava viaggiando per il mondo.

Giovanni Paolo II stupì tante volte, con la fantasia di giovane pontefice – eletto a 58 anni, a 38 era vescovo ausiliare di Cracovia  -; stupì col primissimo “Mi corrigerete” (lui papa straniero dopo 456 anni di papi italiani), con la saldezza dell’invito della prima messa “Non abbiate paura, anzi spalancate le porta a Cristo”, col tono irremovibile di Agrigento “Verrà un giorno il giudizio di Dio”, col defilè dei copricapi con cui si mostrava papa di ogni uomo e di ogni paese, tanto che quasi lo ricordiamo più con il casco dei minatori o le penne da indiano che non con la mitra.

Ha saputo partecipare alla scrittura della storia dei suoi anni, contribuendo alle crepe di un muro di Berlino che, crollando, riunì sì uomini e nazioni ma anche liberò la fede in paesi dove era stata proibita (egli stesso frequentò il seminario clandestino di Cracovia, lavorando nelle cave e in fabbrica). E’ figlia di quel subìto nascondimento la sua esigenza di celebrazioni all’aperto, fiorite nei giubilei, trionfate in uno dei suoi frutti più belli, le Gmg, sua grandiosa intuizione che, dal 1986, ha radunato milioni di giovani a Roma, Buenos Aires, Manila, Toronto e in tante altre città.

Fu campione di dialogo con le popolazioni ma anche con le religioni del mondo: resta un punto fermo nella storia quel 27 ottobre 1986 quando, per la prima volta, ad Assisi riunì i leader delle grandi religioni della terra per invocare la pace, che definì “un cantiere aperto a tutti”.

Noi, di questa diocesi, abbiamo avuto il dono di una sua visita nel 1992 e oggi possiamo ricordare i suoi passi nei nostri luoghi: in Fiera e alla Zanussi a Pordenone, in cattedrale a Concordia, a La Nostra famiglia di San Vito. Dal Municipio del capuogo elogiò “la capacità lavorativa e l’inventiva imprenditoriale delle popolazioni” come “la capacità di accoglienza, da decenni espressa nei confronti di una immigrazione prima di carattere nazionale e ora anche europeo ed extracomunitario”. Due indicazioni e due valori che, quasi trent’anni dopo e in pieno coronavirus, restano prioritari per tutto il paese.

Figli della tv più che dello studio ne conosciamo le immagini più che gli scritti, ma Giovanni Paolo II in quasi 27 anni di pontificato ne ha prodotti tanti: 14 encicliche, 15 esortazioni apostoliche, 11 costituzioni, 45 lettere apostoliche, senza contare interventi, omelie, libri scritti da lui (dal teatro alle poesie) e i metri di scaffali che servono ad ospitare i libri che di lui parlano. Ne ricordiamo uno, “Un papa amabile”, scritto dal già direttore de Il Popolo, don Bruno Cescon.

Ci ha insegnato che le due ali che sorreggono l’uomo sono la fides e la ratio, che fede e ragione impastano l’uomo e lo sospingono in una continua danza di corrispondenze. Ma testimoniò con la vita che gli studi teologici e filosofici arricchirono la sua mente e la sua anima non meno della preghiera incessante, che piegò con la costanza della necessità le sue ginocchia.

Fu anche un papa più volte ricoverato all’ospedale: dopo l’attentato vennero il tumore, gli incidenti domestici, la malattia. E più volte tenne il mondo col fiato sospeso, perché il mondo che con lui si sentiva al sicuro. Anche quando la fragilità e la sofferenza erano visibili, anche quando il male fu più forte di ogni parola, dava inquietudine il pensiero di non averlo come guida. Testimoniò fino alla fine, ridotto al silenzio, con l’esigua forza di un pugno sferrato al davanzale nel suo ultimo affaccio, il suo continuare ad essere “Totus tuus” e a donarsi al mondo.

Anche se dal 27 aprile 2014 lo preghiamo tra i Santi (ma “Santo subito” lo proclamarono i 300mila accorsi al suo funerale, l’8 aprile 2005), la testimonianza che ci ha dato ce lo fa sentire un uomo di Dio che ha incarnato, in abiti da papa, la parabola della vita di ogni creatura: attraversando la bellezza e la robustezza per giungere alla fragilità bisognosa di aiuto.

Lunedì 18 maggio, a cent’anni dalla sua nascita, possiamo ricordarlo libero e radioso con gli scarponi ai piedi sulle amate montagne, o in preghiera davanti la Madonna nera di Czestochowa o stremato ma ancora aggrappato alla croce, comunque certi della sua instancabile presenza, pronto a ricordarci: “Non abbiate paura”.