L'Editoriale
La Brexit è un labirinto
Il 12 marzo è il giorno delle risposte per il regno Unito, per Teresa May, per l'Irlanda, Per i tanti europei e italiani che vivono e lavorano in Inghilterra. Cosa succederà? Brexit sì o no? Il guaio è che, in questa complicata storia, ogni pista indicata trova un oppositore
Marzo 2019 sarà il mese più british della storia: una serie di tappe porteranno al Brexit Day del 29, giorno in cui, come ha deciso il popolo britannico nel referedum del 23 giugno 2016, l’isola oltre la Manica lascerà l’Unione europea. La Brexit altro non è che questo: la Br(itannica) uscita (exit) dall’Europa, che dal 30 marzo sarà un’Unione a 27 e non più a 28 stati.
Quando detto è vero e, al contempo, modificabile per le tante questioni ancora aperte. Per questo marzo è fitto di decisioni che scriveranno la storia della Gran Bretagna e dell’Europa.
Il giorno tanto atteso è il 12: il primo ministro Theresa May proporrà al parlamento l’ennesima bozza di accordo circa l’uscita. Con quale linea, se dura o morbida, è tutto da vedere, dopo l’ultima bocciatura del 14 febbraio.
Mentre la situazione resta tesa e ingarbugliata, i laburisti di Corbyn, favorevoli ad una uscita più soft dall’Unione, la scorsa settimana hanno proposto un contro referendum per fare marcia indietro sulla Brexit. Notizia accolta con incredulità, ostilità (anche interne: sette deputati hanno lasciato il partito) e impossibilità: non si vota due volte sulla stessa questione. Sarebbe come calpestare quanto il popolo ha già deciso. Per questo la strada referendaria si mostra difficile: per la domanda da formulare e per i tempi strettissimi, dato che al fatidico 29 mancano una ventina di giorni e il 12 ci sarà l’ultima proposta della May.
La questione Irlanda contribuisce non poco allo stallo. Oggi tra le due parti dell’isola – il Nord appartiene al Regno unito, il resto è una Repubblica indipendente – niente ostacola il libero transito di merci (un milione di camion, 1,3 milioni di furgoni e 12 milioni di automobili l’anno) e di persone (35mila al giorno). Ma la pace (10 aprile 1998) è costata trent’anni di attentati e violenze, 3.600 morti, di cui 2mila civili. Ebbene, l’uscita senza accordi dall’Ue fa temere il riaccendersi di nuove gravi tensioni e pesanti problemi commerciali tra le due irlande. Per ovviare a questa situazione, la stessa Unione europea aveva proposto di dare facoltà all’Irlanda del Nord di rimanere, anche dopo la Brexit, sia nell’unione doganale che nel mercato unico europeo. Ma la proposta non è stata accettata dalla May e dai conservatori, poiché avrebbe marcato una linea di diversità all’interno del Regno tra Inghilterra e Irlanda del Nord. Al momento, la soluzione sta in un salomonico “Back stop”, una marcia indietro sull’uscita, che prevede l’estensione di una forma di unione doganale speciale non solo all’Irlanda del Nord ma anche alla Gran Bretagna, al fine di non creare disparità tra le due parti.
Il guaio è che, in questa complicata storia, ogni pista indicata trova un oppositore: così il Back stop non piace agli antieuruopeisti, che in esso vedono il permanere del Regno Unito nel mercato europeo, cosa che renderebbe la Brexit e il referendum una farsa.
Non è che uno dei tanti nodi che verranno al pettine il 12 marzo: giorno atteso per i tanti scenari possibili.
Uno: che la May presenti un piano d’uscita che venga finalmente accettato dal parlamento. Nel qual caso si andrebbe incontro alla Brexit del 29 marzo con un raggiunto accordo.
Due: che il piano di uscita della May non venga neppure questa volta accettato dal parlamento. Nel qual caso al parlamento non resterebbe che votare il consenso all’uscita senza accordo (no deal). E questa è la via più temuta per le ricordate ragioni socio-economiche.
Tre: che i proponenti il secondo referendum trovino il tempo e il modo per riformulare la domanda alla nazione. Nel qual caso la questione ritornerebbe nelle mani del popolo, forse oggi più consapevole di due anni e mezzo fa delle conseguenze della Brexit.
Quattro: che non si arrivi né ad un secondo referendum, né ad un accordo con la May e neppure al voto del parlamento per un’uscita anche senza accordo. Ossia che neanche il 12 marzo si sblocchi la situazione. Nel qual caso non resterebbe agli inglesi un’ultima chance: chiedere all’Europa una estensione della scadenza indicata dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona (che regola l’uscita di uno Stato dalla Unione europea). Ossia temporeggiare, chiedere una proroga rispetto al 29 marzo. Cosa possibile se tutti gli altri 27 Paesi membri dell’Unione daranno un voto favorevole.
Sarebbe il rinvio la soluzione migliore? Una cosa è certa: la concessione di una proroga farebbe sì che la Gran Bretagna – rimanendo ancora in Europa – si trovi coinvolta nelle elezioni europee di fine maggio. E in due mesi dovrebbe pensare anche a quelle: campagna elettorale, liste, programmi, candidati. E sarebbe un duplice absurdum: uno perché la Brexit è la vittoria dell’antieuropeismo; due perché, una volta scaduta anche la proroga, il divorzio con l’Europa sarà definitivo e i neoeletti inglesi se ne dovrebbero comunque andare.
Non è poi da trascurare che la questione, oltre gli inglesi e le economie di molti Stati, tiene in sospeso anche i 3,5 milioni di europei e 700mila italiani che vivono e lavorano in Gran Bretagna. E’ infatti stato fissato un tetto di almeno 5 anni di residenza per poter rimanere nel Regno come cittadini (con doppio passaporto). Se Brexit sarà, chi risiede nel Regno da meno di 5 anni sarà considerato straniero.
Insomma la Gran Bretagna si è cacciata in un labirintico poliedro: ogni faccia mostra una questione irrisolta. E per quante vie si intravedano, nessuna è quella giusta.