L'Editoriale
Come augurio e come promessa
Il VI rapporto Caritas dei primi di dicembre, il quale ben sottolinea la noncuranza del mondo, e nostra, nei confronti della guerra. Vi si legge: "Tra la popolazione italiana c’è una sorta di amnesia (o ignoranza?) piuttosto elevata sull’esistenza di tutte queste situazioni drammatiche".
Il tema è un promemoria rivolto al mondo intero: “La buona politica è a servizio della pace”. E il mondo ne ha, come sempre, bisogno: nonostante questo sia uno degli auspici più condivisi.
“Non c’è pace senza fiducia reciproca” ha scritto papa Francesco nel suo messaggio per il primo gennaio, Giornata della pace istituita da Paolo VI nel 1968. Una reciprocità che rimanda, in prima battuta, alla pace che dovrebbe nascere nel luogo in cui siamo: una pace domestica e familiare, da portare nel mondo del lavoro, dello svago, dei rapporti quotidiani.
Il messaggio di Francesco chiama subito in causa la politica che dovrebbe essere “a servizio” della pace. Il condizionale è specchio della realtà e quindi è d’obbligo, poiché il mondo è scosso da guerre senza fine: lo dicono l’Afghanistan dei talebani e dei carri armati, la Siria delle macerie e della polvere, l’affamato Yemen, per i cui figli morti bambini il mondo sembra fermarsi. Ma passa una manciata di giorni e l’attenzione è già altrove. La commozione se ne va, dimenticando la yemenita Amal, morta di fame a sette anni come il siriano Alan, di tre anni, ritrovato annegato nel tentativo della famiglia di lasciare la Turchia.
A fronte delle guerre più note ce ne sono altre che restano ai margini della consapevolezza diffusa: in un’Africa dilaniata da guerriglie e violenze continue – che spingono le popolazioni a cercare altrove una speranza di vita -, basti l’esempio del Congo, dove sotto il vestito della tregua le bande armate fanno strage di villaggi interi. O lo status cruento dell’Ucraina che di recente Sergio Romano ha definito “una guerra chiamata pace”, per ribadire che le parole sanno dire quando sono veritiere e nascondere quando non lo sono.
Una verità, quella delle guerre in atto – che alimentano un prospero mercato d’armi -, messa in luce dal VI rapporto Caritas dei primi di dicembre, il quale ben sottolinea la noncuranza del mondo, e nostra, nei confronti della guerra. Vi si legge: “Tra la popolazione italiana c’è una sorta di amnesia (o ignoranza?) piuttosto elevata sull’esistenza di tutte queste situazioni drammatiche”.
Ben poco consola allora che nel 2017 i conflitti abbiano registrato un -7,6%, passando da 409 a 378, se tra questi gravano, in termini di distruzione e morte, 20 guerre ad alta densità che coinvolgono 15 Paesi. Anche il resto uccide: tra i 378 conflitti sono state individuate 186 “crisi violente” (il 49,2% dei conflitti mondiali in corso); scuotono l’Asia e Oceania (59 situazioni di conflitto) e l’Africa sub-sahariana (48 crisi). Altre 81 sono le “crisi non violente” (il 21,4% dei conflitti).
Non di guerra ma di tensioni crescenti si agita l’Europa, che si apre al nuovo anno scossa da ovest ad est: i gilet gialli in Francia, le manifestazioni di Barcellona, la travagliata Brexit, la rivolta dei lavoratori contro la politica di Orban in Ungheria, ma fremono anche Polonia, Romania e Bulgaria. E l’Italia si apre a un futuro dal disegno incerto dopo una manovra sofferta e confusa, tra aspri confronti e tensioni istituzionali.
Per tutto questo, dunque, la pace del primo gennaio non è un ritornello stantio ma l’auspicio più necessario e l’impegno primo in un mondo “frantumato”, come lo definisce Francesco, per il quale la violenza non è certo la cura. E una giornata per la pace, come scrisse Paolo VI, è necessaria “come augurio e come promessa”.