Riflessioni sulle motivazioni del Sinodo

La proposta del Sinodo ha un chiaro intento di attivazione: non ci si può semplicemente adagiare sullo stato di cose presenti.

Alla base del percorso del Sinodo diocesano, indetto dal Vescovo Mons. Giuseppe Pellegrini il 1° marzo scorso con la lettera pubblica “Ai fratelli e sorelle della santa Chiesa di Concordia-Pordenone”, si può riconoscere una sorta di “coraggio necessario”.E’ quello che serve per affrontare un cammino non proprio usuale, tanto sul piano del metodo – l’ascolto attento e allargato ai non soli “addetti ai lavori”, l’impegno a condividere valutazioni, suggerimenti, decisioni – che su quello del merito: le “sfide epocali” richiamate da Papa Francesco, le peculiarità della condizione della Chiesa italiana e, ancora più in concreto, i quattro ambiti che sono stati indicati nei documenti di base del Sinodo come ossatura per la discussione: il confronto con i cambiamenti della nostra società; il battesimo come origine della vita e dell’impegno cristiano; il rinnovamento della pastorale; il ripensamento del ruolo dei preti e diaconi.In altri tempi, qualche decina di anni fa, un tale percorso sarebbe servito a mettere un po’ d’ordine in una casa con molti inquilini vivaci. Oggi non mi sembra sia così. La casa non rischia astratti furori, gli inquilini sono (quasi) tutti molto educati. Però sembrano – anche se magari non lo sono – come in letargo. C’è una quotidianità che domina. Ci sono condizioni oggettive – in primis l’invecchiamento delle nostre società che si riflette abbondantemente nell’invecchiamento dei preti (oltre 61 anni la loro età media in Italia nel 2019; meno del 10% sono quelli con età inferiore a 40 anni) – che favoriscono, ed è anche umanamente comprensibile, l’appeasement. Ci sono percorsi di iniziazione cristiana, di catechesi, liturgie e riti consolidati che si ripetono e si ripropongono senza porsi troppe domande su quanto vengono attualizzati e vissuti come significativi.C’è alle spalle, frutto di una storia millenaria, un patrimonio immenso di arte, di strutture, di saperi, di relazioni: un’eredità magnifica che ha anche una funzione tranquillizzante, in fondo in fondo il solo mantenerla può già essere ritenuto un risultato importante. Dimenticando, o distogliendo l’attenzione, dall’erosione incessante cui quel patrimonio è sottoposto sotto l’azione non solo degli agenti materiali che minacciano le strutture fisiche (il deperimento naturale aggravato dall’abbandono, la scarsità di risorse umane) quanto del lavorio senza sosta dei linguaggi secolarizzati in cui siamo immersi e che mettono continuamente e radicalmente in discussione gli stessi fondamenti della fede. La proposta del Sinodo, in questo contesto, ha un chiaro intento di attivazione, richiama alla riflessione e alla decisione perché non ci si può semplicemente adagiare sullo stato di cose presenti.L’enfasi è posta sulla necessità e sul metodo dell’ascolto: ma in questo modo non si intende semplicemente assicurare la buona volontà e la disponibilità ad ascoltare quanto piuttosto sollecitare quanti hanno a cuore il momento e le sorti della Chiesa e ne intuiscono le difficoltà, ad esprimersi, a suggerire, a individuare percorsi che portino, come atteso dalle indicazioni originarie del sinodo, “la Chiesa in uscita”. In definitiva l’occasione del Sinodo è la richiesta, a preti e laici, di prendersi la responsabilità di parlare, premessa necessaria all’assunzione di decisioni innovative e impegnative. C’è un dispositivo spontaneo, nel pensiero di ogni credente, che funziona da salvaguardia all’assunzione di responsabilità: ed è la consapevolezza, la sicurezza che “siamo servi inutili”, che la barca di Pietro non è nelle nostre mani, non siamo noi a guidarla. Ma nel vangelo di Luca l’invito a pensarci e dichiararci “servi inutili” si accompagna all’affermazione “abbiamo fatto quanto dovevamo fare”: non è un lasciapassare per la pigrizia ma un richiamo, rude e severo, ad impegnarci senza mentalità e atteggiamenti presuntuosi.Bruno Anastasia

CARD. GUALTIERO BASSETTI, PRESIDENTE CEI

Intervento alla 74/ma Assemblea Generale

Il popolo di Dio non è una grandezza puramente sociologica, ma teologica, pastorale e spirituale. Questo popolo di Dio è insieme santo e fedele. Nell’ultimo anno ci siamo resi conto ancora meglio, purtroppo passando attraverso una drammatica pandemia, di come la santità sia piantata nel terreno delle nostre comunità cristiane e civili; di come l’amore di Dio operi nei cuori, anche al di là delle categorie con le quali siamo abituati a ragionare: credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, praticanti o meno. Esiste una santità diffusa, che va raccolta e narrata. … La sinodalità, come stile, metodo e cammino, è perfettamente coerente con un percorso che abbraccia cinque decenni, tanto più per la consapevolezza di un cambiamento d’epoca in atto. Oggi la Chiesa che è in Italia è chiamata a un discernimento che generi conversione, comunione e corresponsabilità. Disegnare forme rinnovate è la nostra responsabilità odierna. In continuità con la storia di una Chiesa di popolo che, tanto più dopo le prove degli ultimi due anni, è chiamata a una propulsione rinnovata, che guardi ai processi, punti sulle relazioni, a partire dal concreto vissuto di ciascuno, sappia entrare con calore nelle pieghe della vita delle donne e degli uomini per offrire parole e testimonianze di speranza. La Chiesa che è in Italia non è mai stata e mai sarà in contrapposizione a Pietro, al Suo Magistero, alla Sua Parola. Per questo, oggi, come è sempre avvenuto nella nostra storia, ci sentiamo chiamati a vivere la sinodalità, a disegnare un cammino sinodale, che rappresenta così quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile, perché attento ai complessi cambiamenti in atto e desideroso di dire la verità del Vangelo nelle mutate condizioni di vita degli uomini e delle donne del nostro tempo.Come Vescovi dobbiamo mettere in campo percorsi sinodali capaci di dare voce ai vissuti e alle peculiarità delle nostre comunità ecclesiali, contribuendo a far maturare, pur nella multiformità degli scenari, volti di Chiesa nei quali sono rintracciabili i tratti di un Noi ricco di storia e di storie, di esperienze e di competenze, di vissuti plurali dei credenti, di carismi e ministeri, di ricchezze e di povertà. È uno stile che domanda una serie di scelte che possono concorrere a rappresentare la forma concreta in cui si realizza la conversione pastorale alla quale Papa Francesco insistentemente ci richiama. È uno stile che vuole riconoscere il primato della persona sulle strutture, come pure che intende mettere in dialogo le generazioni, che scommette sulla corresponsabilità di tutti i soggetti ecclesiali, che è capace di valorizzare e armonizzare le risorse delle comunità, che ha il coraggio di non farsi ancora condizionare dal si è sempre fatto così, che assume come orizzonte il servizio all’umanità nella sua integralità. È un cambio di rotta quello che ci viene chiesto. Già il Concilio aveva definitivamente mutato l’atteggiamento della Chiesa verso la modernità: non più il sospetto o il rifiuto, ma il dialogo e la profezia. È tempo di dare seguito a quel processo di confronto fiducioso e intelligente con la società. Mentre emergono qua e là estremismi, che usano la violenza per affermare le proprie idee, la comunità ecclesiale, tutta intera, porta il contributo costruttivo della mediazione e della pace, della razionalità e della carità, costruendo ponti di comprensione con tutti e prendendo sul serio le domande antropologiche fondamentali”.