Angelo Floramo riceve il 27 gennaio il premio Nonino

Il 27 gennaio il prof. Angelo Floramo – docente, storico, ricercatore, medievalista, affabulatore – riceve a Percoto il Premio Nonino Risit d’Aur  (Barbatella d’Oro) 2024 assieme alla Cooperativa Insieme “Frutti di pace”. Abbiamo incontrato Floramo giorni fa a Pordenone, dove è di casa, prima di una conversazione sui viandanti friulani, a cura del Circolo della Cultura e delle Arti, per una chiacchierata su vari temi.

Il 27 gennaio il prof. Angelo Floramo – docente, storico, ricercatore, medievalista, affabulatore – riceve a Percoto il Premio Nonino Risit d’Aur  (Barbatella d’Oro) 2024 assieme alla Cooperativa Insieme “Frutti di pace”. Abbiamo incontrato Floramo giorni fa a Pordenone, dove è di casa, prima di una conversazione sui viandanti friulani, a cura del Circolo della Cultura e delle Arti, per una chiacchierata su vari temi.

Professor Floramo, la motivazione del Premio Nonino dice, fra l’altro, che lei “ricerca da sempre i fili che legano la cultura friulana a quella slovena (…) alla ricerca delle radici comuni…”: vi si ritrova?

Certamente, la motivazione mi onora. Prima di tutto perché mi definisce uomo di frontiera: ho sempre creduto che la frontiera fosse luogo di intersezione, di inclusività, di meticciato come si dice adesso, dove si intrecciano tante cose e in cui riesci a riconoscerti parte di una pluralità, dove i paesaggi sono simili, gli accenti si mescolano. In questo terribile ultimo secolo sembrava invece che dovessero prevalere i muri – che purtroppo stanno tonando –, e con essi i confini che sono elemento diverso dalla frontiera. E allora, mi fa piacere (tantopiù perché inaspettato) che sia stato riconosciuto il valore del mio pellegrinare alla ricerca dei collegamenti per creare delle possibilità di confronto fra le genti. E in questo pellegrinare ho avuto la possibilità di incontrare in Bosnia persone come Rada Zarkovic e le donne della cooperativa “Insieme”, che si definiscono semplicemente “Donne di Bosnia” senza distinzioni geografiche o etniche o di appartenenza religiosa per affermare, riconoscendo nel proprio il dolore dell’altro, la possibilità della pace. Ora il loro progetto è sostenuto (anche dalla Lega Coop) e riescono a dare da mangiare e da vivere a tutta la comunità, per cui sono veramente contento di condividere con loro il Premio.

Passando a parlare del suo ultimo libro, “Vino e libertà” (ed. BEE), mi sembra che i racconti che lo compongono siano in qualche modo legati dalla ricerca dell’anarchia.

Confermo, ma l’anarchia che io ricerco non è quella di chi mette le bombe, fa saltare le vetrine o un tempo girava per l’Europa per uccidere qualche monarca. L’anarchia che ricerco io è quella che si identifica nella libertà. Una libertà che sa autolimitarsi, che riconosce la libertà altrui, per cui la mia si ferma laddove inizia la tua. Ma anche anarchia come confronto di idee diverse, come aspirazione a una libertà nuova per tutti, capace di sognare, di superare l’incapacità dell’uomo di rinunciare a qualcosa perché anche gli altri possano goderne: in fondo i grandi pensatori anarchici del passato hanno insegnato che l’utopia non è un luogo difficile o impossibile da raggiungere. Nel gioco dei racconti si mescola anche l’idea del vino, cioè l’idea dell’ebbrezza, ovvero quella dimensione ancestrale arcaica che ci insegna che forse le idee aiutano a sognare un mondo migliore, senza farsi assoggettare da alcun potere.

A proposito del vino e del cibo: le sue descrizioni danno la sensazione di gustare concretamente ciò che viene descritto.

Mi piace la dimensione umana, che si riconosce nella sensualità del corpo come elemento capace provare delle sensazioni che però non vanno intese semplicemente come espletamento delle funzioni biologiche, ma che si intridono nella cultura all’interno di un piatto, di un bicchiere, sono storie che rimbalzano. Ogni volta che visito una terra vicina o lontana mi piace scoprire l’umanità locale grazie a una forte convivialità con le persone che vivono in quel posto, che magari frequentano quel luogo e che vi si riconoscono. Non necessariamente nelle osterie, ma anche nella casa in cui tu vieni accolto e dove ognuno porta quel poco che ha, come si faceva una volta, e dove si tira tardi svolazzando su qualsiasi argomento.

Ma gli incontri che lei descrive sono spesso straordinari, che si tratti di intellettuali o di gente comune. Ma sono incontri veri?

Per la maggior parte dei casi sono incontri veramente avvenuti e i personaggi sono veri, magari cambio il nome per rispetto della loro sensibilità. Certo, poi io magari ci metto del mio per infiorare un po’ il contorno e per dare un senso narrativo al tutto. Per restare a Pordenone, quando io descrivo il terribile episodio storico accaduto a fine ‘800 nel Cotonificio Amman di Borgomeduna (capitolo conclusivo di “Vino e libertà”, laddove si descrive la morte di una bambina lavoratrice, ndr), per inquadrare geograficamente il tutto mi sono servito di un’altra storia assolutamente reale (tre amici che hanno un rito complicato per riconoscere il vino “mascherato” che stanno bevendo), che avviene in un locale di quel quartiere.

Parliamo della sua passione (condita da una rara capacità affabulatoria) per il raccontare: nasce dal suo particolare rapporto con il libro?

Il mio rapporto con i libri, specie con quelli antichi, è “carnale”. Per me sono materia viva: le pergamene degli antichi codici sono vive, le pagine di carta pure, le si sente vivere, pulsare, profumare… Da questo amore, grazie anche al privilegio che ho di “vivere” alla Guarneriana di San Daniele e di frequentare tante biblioteche antiche, è nato quello per il raccontare. Perché quelle carte non sono e non devono essere museificate, ma sono desiderose di essere conosciute da tutti. E circa il metodo di raccontare c’è da dire che nell’università di un tempo c’era un rapporto continuo e vivace non solo fra studenti, ma anche fra studenti e docenti, un rapporto che non si esauriva in aula, ma continuava fuori, nei colloqui coi maestri e nelle serate comunitarie in osteria per condividere la cultura anche nei momenti di rilassatezza. Da qui la convinzione che più che spiegare le cose, vanno raccontate. Ma attenzione: la ricerca storica sarebbe necrofilia se restasse un momento chiuso, essa va raccontata e in essa si trova anche la risposta a tanti problemi attuali.

Lei è uomo “di là da l’aga”, ma conosce bene anche “il di cà”: che visione ha del Friuli Occidentale?

Questo è un territorio ricchissimo di tante cose ed è una terra con tante frontiere: le montagne a nord, il Veneto a ovest; una terra dove convivono tanti linguaggi, con un friulano che persiste in alcune zone, magari con varietà particolarissime, mentre poco più in là si parlano dialetti venetizzanti: è affascinante cercare e raccogliere queste perle. Persistono pure alcuni paesaggi che di là del fiume stanno morendo. Direi che qui c’è un’idea del Friuli del futuro.

Nico Nanni