Cultura e Spettacoli
Cent’anni fa la prima definizione del confine orientale con il trattato di Rapallo
Finalità del Giorno del Ricordo è, oltre che la memoria delle tragedie delle vittime delle foibe e dell’esodo, quella della "più complessa vicenda del confine orientale" d’Italia: così la legge istitutiva 30 marzo 2004 all’art. 1.
Finalità del Giorno del Ricordo è, oltre che la memoria delle tragedie delle vittime delle foibe e dell’esodo, quella della “più complessa vicenda del confine orientale” d’Italia: così la legge istitutiva 30 marzo 2004 all’art. 1.Controverso, per la compresenza di diverse etnie sul medesimo suolo, fu sempre definire tale delimitazione, ancor più a partire dalla conclusione della Prima Guerra mondiale che estinse l’Impero Austro Ungarico (ma anche quello Ottomano) e segnò il nascere di una nuova realtà statuale, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, in seguito chiamato Jugoslavia.È con tale stato che l’Italia – dopo che la conferenza della pace di Parigi del 1919 aveva demandato la questione a una soluzione negoziata tra le parti coinvolte – siglò cent’anni fa il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, un compromesso. Dopo l’assegnazione a noi, quale parte della Triplice Intesa vincitrice del conflitto, del Trentino e Alto Adige (trattato di Saint Germain, 10 settembre 1919), esso fissò il confine alle Alpi Giulie spartiacque naturale, con Gorizia e Trieste, la Venezia Giulia e l’Istria, più in là il Golfo del Quarnero con le isole di Cherso e Lussino, ma non Fiume e la Dalmazia.Si riprese allora la dannunziana espressione di “vittoria mutilata”, perché la Dalmazia era stata promessa con il Patto segreto di Londra del 26 aprile 1915 che aveva deciso il governo italiano a scendere sul campo sanguinoso (specie in queste terre contese) della Grande Guerra dopo il primo anno di neutralità.Protagonisti italiani di quella trattativa diplomatica che ridisegnava in modo significativo la geografia politica europea anche in quest’area, che si rivelò poi molto calda e dolorosa alla fine del Secondo conflitto, furono personalità quali Vittorio Emanuele Orlando e Giovanni Giolitti, presidenti del Consiglio, Sidney Sonnino e Carlo Sforza, ministri degli Esteri, Nitti, Ivanoe Bonomi, il generale Badoglio.La conseguenza fu, già allora, un primo esodo che interessò ventimila connazionali che sciamarono da città di antica origine romana o di secolare insediamento italiano autoctono (la Serenissima considerò l’Adriatico come un Mare nostrum, anzi un lago veneto: inconfondibile nella parlata pure sulla costa di là). Da esse, da verso fine Ottocento se n’erano già andati tanti dalmati italiani vessati dalla politica asburgica volta a semplificare il quadro etnico a favore dell’identità croata: parliamo specialmente di Spalato presso l’antica Salona (di qui era lo scrittore Enzo Bettiza, autore del romanzo Esilio) e della Sebenico di Niccolò Tommaseo, entrambe a consistente presenza di lingua italiana, e di Traù, con le stupende cattedrali, di Ragusa e Cattaro, delle isole di Veglia, Arbe, Pago, Incoronate, e poi Curzola, Lesina, Lissa, Brazza, Meleda.Il trattato riconobbe all’Italia solo Zara (con le isole di Lagosta e Pelagosa), che allo scoppio della guerra contava ancora l’elemento italiano come maggioritario: questa bellissima città adriatica entrò così, come piccola exclave, a far parte del Regno d’Italia, accolse – insieme a Trieste e Roma – tanti di questi primi esuli (dalmati), ma anche visse nella Seconda guerra il primato nel numero di morti in proporzione alla popolazione (2.000, pari al 10%), periti nel 1943-44 sotto gli indiscriminati 53 bombardamenti angloamericani che rasero al suolo l’85% degli edifici.Pure l’ultimo tassello della Dalmazia italiana doveva passare alla Jugoslavia: questa era però ormai diventata quella di Tito che, occupata la città, uccise ancora, non in una foiba ma soprattutto annegando in mare con una pietra al collo gli zaratini italiani di spicco. Ai morti si aggiunsero – ben prima del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 sull’ennesimo nuovo confine orientale e molto prima che in Istria – altri esuli, circa 15.000, letteralmente fuggiti nello Stivale (fra questi lo stilista Ottavio Missoni).E fu la cancellazione, segnata già a Rapallo, della nazione dalmata, un ponte culturale dove “l’italiano non istudia di italianizzare lo slavo, né lo slavo di slavizzar l’italiano”: così l’archeologo mons. Francesco Carrara affermava a Spalato, ancora nel 1849, di un popolo, gli italiani di Dalmazia, oggi ridotto a poco più di un migliaio.FIUME. Ciò che l’atto di Rapallo (sarà oggetto di tre convegni in quest’anno: a Trieste, Rapallo e Belgrado) non riuscì a fissare veramente fu la sorte di Fiume, già appartenente come corpus separatum alla corona ungherese e città multietnica e multiculturale, dove si parlava in maggioranza la nostra lingua. L’orientamento per la non attribuzione di essa all’Italia emerso nella conferenza di pace di Parigi venne subito avversato con la forza dall’originale impresa dei 2.500 legionari di Gabriele D’Annunzio che, dal 12 settembre 1919, avevano marciato e preso la città e distretto e instaurato illegalmente la Reggenza Italiana del Carnaro: un governo regolato dall’avveniristica “Carta”, considerata oggi paradigmatica nella concessione di autonomia alle realtà locali e un’anticipazione del riconoscimento di alcune libertà individuali che maturerà nei decenni successivi. L’esperienza si concluse nella repressione da parte dell’Italia, il Natale di sangue 1920 (una cinquantina i morti), e questo anche per colpa degli eccessi comportamentali del vate (che dovette lasciare la reggenza il 31 dicembre) e dei suoi giovanissimi seguaci accorsi da ogni dove, i quali cominciarono a defluire dalla città nel gennaio 1921, cent’anni fa.Lo Stato Libero di Fiume (l’ex corpus separatum), contestualmente sancito a Rapallo, finì poi per essere spartito con il regno di Belgrado, ma con assegnazione della città all’Italia (Trattato di Roma del 27 gennaio 1924): sacrificata anch’essa il 10 febbraio 1947 e da cui numerosissimi esuli provennero, dopo tante atrocità (“olocausta” fu detta Fiume), pure qui da noi.
Walter Arzaretti