Chiesa
Athenagoras (Patriarcato ecumenico): “Non c’è alternativa al dialogo. Cammino lento, ma indietro non si torna”
“Il dialogo è un movimento senza ritorno: è lento, a volte difficile, ma non può tornare indietro. Non c’è alternativa al dialogo e il mondo ha bisogno di ascoltare il messaggio dei cristiani. E’ un messaggio di pace, di fraternità, di rispetto: è ciò che ci ha insegnato Gesù Cristo. È un messaggio che parla anche a chi non crede, perché i valori che contiene possono essere riconosciuti da tutti”. Con queste parole Athenagoras Fasiolo, vescovo di Terme della Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia (Patriarcato ecumenico) sintetizza il viaggio di Papa Leone XIV, ripercorrendo le tappe “ecumeniche” e i segni di dialogo e incontro che ci sono stati tra i rappresentanti delle varie Chiese.
Papa Leone e il Patriarca Bartolomeo di nuovo insieme per i 1.700 anni di Nicea. Dalla celebrazione ecumenica, alla Dichiarazione, alle omelie…Quale il messaggio hanno lanciato oggi al mondo dal suo punto di vista?
1700 anni fa, le Chiese ebbero la capacità di incontrarsi. All’epoca non esisteva una vera varietà di Chiese come la intendiamo oggi; certo, c’erano molte Chiese locali, diverse tra loro, ma seppero comunque ritrovarsi e dialogare. Oggi, invece, non abbiamo semplicemente Chiese diverse: abbiamo Chiese divise. Eppure – ed è questo il primo messaggio -, a Nicea le Chiese hanno dimostrato di avere in qualche modo conservato questa capacità di incontrarsi, di ascoltarsi, parlarsi e soprattutto pregare insieme, cosa che non è affatto scontata. Pur mantenendo le proprie peculiarità e senza rinunciare a nulla, le Chiese insieme si sono rivolte all’unico Cristo. In fondo il Concilio di Nicea ci ricorda proprio questo: esiste un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. A Nicea, inoltre, non c’erano soltanto Papa Leone e il Patriarca Bartolomeo: erano presenti praticamente tutte le grandi famiglie del cristianesimo. Ed è questo, credo, il segno più forte: mostrare al mondo che i cristiani, dopo 1700 anni, hanno ancora molto da dire sulle grandi sfide della convivenza civile, sulle guerre, sui problemi del nostro tempo. Per questo, il passo compiuto insieme a Nicea è stato, a mio avviso, un gesto significativo, destinato a produrre frutti a lungo termine.

Foto Vatican Media/SIR
Oltre alle parole e alle Dichiarazioni, l’ecumenismo è fatto anche di segni. Quale lo ha colpito di più?
Ne ho individuati due. Ho seguito un po’ tutte le cerimonie e, tra queste, due segni mi sono sembrati particolarmente significativi e importanti. Il primo a Nicea: mi ha colpito la camminata lenta verso l’antica basilica di San Neofito, dove probabilmente si svolse il primo concilio ecumenico. Una camminata lenta, preceduta dal Vangelo.
È come dire: il cammino è iniziato, anche se procede con lentezza e non nella velocità che ci aspettiamo. Dobbiamo superare almeno mille anni di divisioni, ma il cammino intrapreso va avanti, senza interrompersi.
Il secondo gesto che mi ha commosso è stato il bacio comune alle reliquie di San Pietro e di Sant’Andrea: i successori di Pietro e di Andrea che, davanti ai due fratelli apostoli, si ritrovano fratelli a loro volta, nella fede. A mio avviso è stato un gesto di enorme forza, perché nulla in esso era scontato: è un gesto di unità, un gesto che dice “siamo insieme” davanti alla nostra fede comune.
Fino ad oggi abbiamo visto un rapporto molto stretto tra Papa Leone e Bartolomeo. In questo viaggio, sono entrati in questo rapporto, anche le altre Chiese cristiane. Che significato ha questa apertura?
I dialoghi teologici sono molti ed esiste una bilateralità, sia nei dialoghi tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese, sia nei dialoghi della nostra Chiesa con le altre. Forse la differenza, oggi, è che questi dialoghi — finora perlopiù bilaterali — potrebbero allargarsi a un orizzonte più ampio. Sicuramente Nicea ha risvegliato una coscienza di appartenenza al cristianesimo, alla Chiesa cristiana nel suo insieme, al di là delle differenze. Da ortodosso — lo dico proprio da ortodosso — una cosa mi è dispiaciuta: la mancata presenza dei Patriarchi di Antiochia e di Gerusalemme. Il fatto che fossero presenti solo con delegazioni, in un evento così importante, è stato, secondo me, un’occasione mancata.

(Foto Vatican Media/SIR)
Nella Dichiarazione comune si parla di nuovo del desiderio di arrivare ad una data comune della Pasqua. Sarà possibile?
Questo incontro lo ha messo nuovamente in evidenza: sia il Patriarca Bartolomeo, sia il Papa hanno ribadito il desiderio di arrivare a una data comune per la celebrazione. Non si tratta solo della data in sé: è una questione fortemente legata alla testimonianza. Ci arriveremo? Questo incontro avrà smosso qualcosa? Sinceramente non lo so, e rimango un po’ dubbioso. Come ho ripetuto più volte, la Chiesa deve camminare con quelli che corrono davanti, ma non deve dimenticare quelli che sono ancora molto indietro. Non si può risolvere un problema creando nuovi scismi o nuove divisioni: ne abbiamo già abbastanza. Bisognerà vedere — per l’ortodossia, ma anche per le Chiese antico-orientali — come si evolverà la situazione, perché ciò che è stato deciso da un Concilio Ecumenico può essere modificato solo da un altro Concilio Ecumenico. Papa Francesco aveva avuto un’intuizione; vedremo se sarà anche l’intuizione di Papa Leone. Staremo a vedere.
Si fa riferimento al 2033 e a Gerusalemme. Ci può dire qualcosa di più?
Il 2033 non è un evento minore. Se abbiamo commemorato così Nicea, dove abbiamo riconosciuto il Cristo, il 2033 ci richiama al Cristo Risorto. La nostra fede si fonda su questo e su nient’altro; senza la Resurrezione non c’è Chiesa, non c’è cristianesimo. Sarà interessante vedere come tutte le Chiese si muoveranno in vista di questo grande anniversario. Credo comunque che il messaggio non sia semplicemente: “Nel 2033 andremo a Gerusalemme per ricordare la Resurrezione di Cristo”. No, è molto più profondo: “torniamo alla fonte del cristianesimo in una terra chiamata ad essere terra di pace e non di conflitto”. Una verità profondissima che accomuna tutte le Chiese e coinvolge tutta l’umanità. In questo viaggio è stato sottolineato più volte che Dio non può mai essere preso come causa di guerra e che non si può combattere in nome di Dio. E’ un messaggio rivolto in primis ai cristiani, e poi a tutta l’umanità.
