Commento al Vangelo
Domenica 5 ottobre, commento di don Renato De Zan
Lc 17,5-10
In quel tempo,5 gli apostoli dissero al Signore: 6 «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. 7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8 Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9 Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare
Il Testo
1. Il testo della pericope evangelica e quello della formula liturgica sono uguali. La Liturgia ha solo aggiunto il normale incipit “In quel tempo”. Il testo è composto da due brani distinti. Il primo (Lc 17,5-6) contiene la domanda dei discepoli sulla crescita della fede e la risposta di Gesù. Il secondo brano (Lc 17.7-10) riguarda il valore del servo.
2. Sotto il profilo narrativo la formula è scandita in tre momenti. Il primo momento coincide con la domanda degli apostoli sulla fede e la risposta di Gesù (Lc 17,5-6). Gli altri due momenti sono caratterizzati dalla presenza del pronome “voi” (v. 7: “Chi di voi”; v. 10: “Così anche voi”. I due elementi, infatti, illustrano un paragone. Il secondo momento, infatti, contiene tre domande di Gesù che illustrano quale fosse la condizione del servo: lavora, prepara il desinare per il padrone e, poi, per se stesso, senza ottenere gratitudine dal padrone perché non ha fatto altro che il proprio dovere (Lc 17,7-9). Il terzo momento presenta il paragone applicandolo all’atteggiamento degli apostoli di fronte a Dio con una conclusione che stupisce: “Siamo servi inutili”.
L’Esegesi
1. Dopo l’insegnamento di Gesù sul povero Lazzaro (vangelo di domenica scorsa), ai discepoli viene spontaneo chiedere più fede per poter tradurre in opere l’insegnamento del Maestro (Lc 17,5-6). La risposta di Gesù sembra enigmatica. Nell’ambito della fede – dice Gesù – il più o il meno non è decisivo, dal momento che ne basta pochissima (quanto un granello di senapa) perché possa fare il miracolo di sradicare un gelso e ripiantarlo in mare. Gesù, dunque, non pone l’attenzione primaria sulle opere (comunque importanti), bensì sulla fede. Anche piccolissima, ma deve esserci. Questa sosterrà ogni decisione per compiere il bene voluto dal Maestro.
2. Il legame tra l’insegnamento sulla fede e quello successivo è molto sottile. Solo la fede e non la brama del riconoscimento fa agire il discepolo di Gesù. Il paragone del Maestro procede per antitesi: al destinatario viene presentato uno scenario impossibile (il padrone che serve lo schiavo) e immediatamente dopo uno scenario reale (lo schiavo che serve il padrone). Successivamente si chiede al destinatario quale sia lo scenario più logico, secondo l’esperienza del tempo: è ovvio che sia il servo a servire il padrone. Da qui la domanda ovvia: il padrone “si riterrà obbligato verso il suo servo, perché (il servo) ha eseguito gli ordini ricevuti?”. La risposta è evidentemente negativa.
3. Dalla logica risposta negativa Gesù trae le conseguenze. L’uomo, intendendo in modo non corretto il valore delle opere fatte in obbedienza a Dio, sarebbe portato a costruire un criterio di contrattualità: a un tot di buone azioni Dio deve corrispondere un tot di premio. Gesù vuole combattere questa logica. L’espressione “servi inutili”, dunque, non esprime l’inutilità, ma piuttosto la non-eccezionalità. Ciò che fa il discepolo non apporta niente a Dio che Egli non abbia già. Si tratta sempre e comunque di una forma dichiarativa di umile consapevolezza di non aver fatto altro che il proprio dovere.
4. Paolo, riprendendo il pensiero di Gesù esprime il concetto in questo modo (Rm 11,18): “Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice (= Cristo), ma è la radice che porta te”. Anche quando il discepolo fa il suo dovere è sempre Cristo che agisce in lui. Giovanni ridice lo stesso concetto in altra forma (Gv 15,5): “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” Dov’è il vanto del discepolo?
Il Contesto Celebrativo
1. Il testo eclogadico della prima lettura (Ab 1,2-3; 2,2-4) evidenzia che la salvezza viene dalla fede. Paolo riprende la frase di Abacuc (“Il giusto vivrà per la sua fede”) per esprimere lo stesso concetto: “In esso (=Vangelo) infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà” (Rm 1,17); “E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà” (Gal 3,11). Si accoda anche la lettere agli Ebrei: “Il mio giusto per fede vivrà; ma se cede, non porrò in lui il mio amore” (Eb 10,38). E le opere? Giacomo è chiarissimo: “Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»” (Gc 2,17-18).
2. Nella petizione e nella prima parte della petizione della Colletta propria l’assemblea chiede al Padre: “rinvigorisci la nostra fede, affinché non ci stanchiamo mai di operare in questo mondo”. Subito dopo nella causa l’assemblea così prega: “La nostra ricompensa è la gioia di essere tuoi servi”.
