Domenica 26 ottobre, commento di don Renato De Zan

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù 9 disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14 Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Presunzione di essere giusti, disprezzando gli altri?

Il Testo

1. Il testo di Lc 18,9-14 contiene una delle tante reprimende di Gesù nei confronti dei farisei. La pericope biblica e la formula liturgica sono identiche, fatto salvo l’incipit aggiunto dalla Liturgia per chiarire chi fosse il mittente (“In quel tempo, Gesù”). Il brano è, sotto il profilo narrativo, semplicissimo. Si apre con un “preambolo” (Lc 18,9) dove il lettore incontra subito il tema che Gesù vuole trattare: la presunzione di essere giusti e il disprezzo per gli altri. Segue la parabola esemplare (Lc 18,10-13). Chiude il brano una considerazione sapienziale (Lc 18,14a) e un proverbio (Lc 18,14b).

2. La parabola esemplare è di proposito costruita sull’antitesi. Da una parte il fariseo e dall’altra il pubblicano. Per gli uditori di Gesù era già subito chiaro il messaggio. Il fariseo è, tutto sommato, il virtuoso che cerca di mettere in pratica tutta la Legge. Il pubblicano invece, è il “collaborazionista” con i dominatori romani ed è un ladro perché nella riscossione delle tasse pone sempre una cresta (non richiesta dai romani) e che egli fa propria. In partenza il giudizio sembra scontato. Gesù, però, alla fine rovescia la valutazione: il fariseo non viene “giustificato” (= salvato), mentre il pubblicano sì.

L’Esegesi

1. Nella parabola di Gesù c’è dell’ironia e c’è dell’amarezza. Nei confronti dei farisei, il Maestro ripete il suo insegnamento: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Lc 16,15). L’amarezza si trova nel fatto che la Parola di Dio, già nell’Antico Testamento, aveva più volte messo in guardia l’ebreo circa la presunzione. Giobbe con saggezza si interroga: “Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore?” (Gb 4,17). Sempre con lo stile della domanda saggia, Giobbe continua: “Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna?” (Gb 15,14). Gli fa eco il Siracide: “Non farti giusto davanti al Signore né saggio davanti al re” (Sir 7,5). Anche il Salmista, discretamente, dice: “Dico a chi si vanta: «Non vantatevi!” (Sal 75,5).

2. C’è di più. Circa il disprezzo, l’Antico Testamento era chiarissimo: “Disprezza il suo prossimo chi è privo di senno, ma l’uomo prudente tace” (Pr 11,12). Il sapiente continua ancora: “Chi disprezza il prossimo pecca, beato chi ha pietà degli umili” (Pr 14,21). Il fariseo, dunque, è completamente distante da ogni fedeltà alla Parola di Dio e, perciò, è peccatore. Poiché è presuntuoso e sprezzante, non se ne rende conto e non chiede perdono a Dio. Il pubblicano, invece, è pienamente consapevole della propria miseria spirituale.

3. Al pubblicano non resta che affidarsi a Dio. L’espressione “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo” è un atteggiamento di disperata autocoscienza. Per capire la portata dell’espressione dobbiamo vedere come si comporta l’innocente di fonte all’ingiusta accusa di aver peccato. Susanna “piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore” (Dan 13,35). Oltre alla piena consapevolezza del proprio essere peccatore, il pubblicano dice: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, ripetendo le parole del salmista penitente: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità” (Sal 51,3).

4. La conclusione, a questo punto, è scontata. Il fariseo torna a casa con un peccato in più, mentre il pubblicano torna a casa perdonato. Il proverbio finale (“chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”) merita una breve spiegazione. Nel mondo biblico l’umiltà è il rispetto del reale. Umiliarsi, dunque, è prendere coscienza del reale. La peccatrice di Lc 7,36-50 è consapevole della propria colpa (prostituta). Non chiede perdono, ma viene perdonata abbondantemente. L’adultera di Gv 8,1-11 è pienamente consapevole di essere una peccatrice (l’hanno sorpresa in “flagrante adulterio”: v.4). Non chiede perdono, ma viene perdonata. Il ladrone di Lc 23,39-43 è pienamente consapevole di essere un peccatore (v. 41). Non chiede perdono, ma viene perdonato e addirittura viene “fatto santo” (“

“oggi con me sarai nel paradiso”: v. 43). Chi è consapevole di essere peccatore ottiene il perdono. Chi non vuole prendere coscienza di essere peccatore, non avrà il perdono.

Il Contesto Celebrativo

1. Il testo eclogadico della prima lettura (Sir 35,15b-17.10-22a) tratteggia una fisionomia tenera e delicata di Dio. Egli ascolta il povero e l’oppresso insieme alla preghiera dell’orfano e della vedova. Egli anche esaudisce tale preghiera. La Liturgia associa il povero, l’oppresso, la vedova e l’orfano (prima lettura) con il peccatore (vangelo) ponendo in chiaro chi siano le persone che Dio ascolta di più.

La Colletta propria associa le due letture. Nell’amplificazione dice che Dio ascolta la preghiera dell’umile e nella petizione invoca lo sguardo di Dio sopra i credenti come se fossero uguali al pubblicano per esperimentare la misericordia divina.