L'editoriale
Gaza: sopravvivenza residua

Gaza: sopravvivenza residua
Simonetta Venturin
Di Gaza resta una sopravvivenza residua e volta al peggioramento se non cambieranno, presto e di parecchio, le cose. Quanto grave sia la situazione è stato illustrato il 23 luglio dal webinar “Cosa rimane a Gaza” da due operatori sul campo come Elda Baggio, medico chirurgo già operativa nella Striscia e vicepresidente di Medici Senza Frontiere Italia, e Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia. Racconti e cifre dicono di fame, distruzione, situazione al collasso.
Elda Baggio ha dato corpo alla tragedia in atto: nei 365 kmq della Striscia 2,1 milioni di persone sono stipate nel 13% di un territorio militarizzato per quasi l’87%, sottoposte a continui spostamenti e ordini di evacuazione. Vivono spesso tendopoli, sotto attacco, con aiuti sanitari sempre più difficili – poiché anche le strutture sono prese di mira -, con pochissima acqua e insufficiente cibo. Negare cibo e colpire ospedali sono crimini di guerra: a Gaza si commettono entrambi.
La questione sanitaria. Dall’inizio del conflitto al 16 luglio si sono registrate 58.573 vittime e 139.607 feriti. I feriti devono essere curati, ma sui 36 ospedali esistenti solo 16 (47%) sono rimasti in piedi, parzialmente funzionanti. Nel Sud della Striscia non ci sono più ospedali.
Il 62% degli ospedali da campo (tende) è parzialmente funzionante ma ha una capacità operativa limitata: vi si rimuovono schegge, si fanno medicazioni e amputazioni in condizioni limite. “Forse non è chiaro – ha dichiarato Elda Baggio – che Gaza ha il primato dei bambini amputati”. Secondo Save the Children ogni giorno più di dieci bambini perdono una o entrambe le gambe.
Il 37% dei distretti sanitari (ambulatori) sono ugualmente parzialmente funzionanti e, come le strutture sanitarie, vanno in esaurimento scorte di medicine, guanti e garze sterili. Nelle strutture di Medici Senza Frontiere (MSF), nelle ultime undici settimane non è stato possibile far arrivare farmaci e materiale sanitario: quel che serve per curare diminuisce di giorno in giorno. La stessa MSF dall’inizio della guerra ha dovuto abbandonare 14 strutture, compresi ospedali, per ordine delle autorità israeliane o per combattimenti in corso. Ma, come ha ricordato Elda Baggio: “Un tempo gli ospedali non si bombardavano, mentre ora sono diventati un target (obiettivo)”. L’art. 18 della Convenzione di Ginevra stabilisce che in tempo di guerra sono protetti malati e feriti, anche militari e combattenti, compresi personale medico e strutture sanitarie, anche mobili. Prenderli di mira è un crimine di guerra. Altrettanto doveroso, sempre secondo la Convenzione, è consentire il rifornimento di materiale medico sanitario e il trasporto dei feriti bisognosi di cure all’interno come all’esterno del paese. I numeri citati dicono di una situazione distantissima da ciò che il diritto tutela. Infatti, anche sul fronte feriti da evacuare per cure urgenti la situazione è grave: nell’ultima settimana, a fronte di altre 150 richieste di MSF, solo 61 sono state autorizzate. Anche questa è una violazione della Convenzione di Ginevra.
Ma è sul fronte alimentare che la situazione è disperata: il cibo manca. Manca ai gazawi come ai medici di MSF che da quasi un mese mangiano una volta al giorno e devono lavorare di continuo e lucidamente. Negli ultimi giorni il dott. Mohammed Abu Mughaisib, vice coordinatore medico del MSF in Gaza, ha scritto un post allarmante: da giorni mangia un solo pasto, un giorno sì e uno no. Lavorare e curare in tali condizioni si fa ogni ora più difficile: “Ci stiamo spegnendo” ha dichiarato.
Centoundici Ong che operano a Gaza – tra cui Caritas e la stessa MSF – lo scorso fine settimana hanno denunciato la condizione di “carestia di massa” indotta dall’uomo. Guterres, segretario generale dell’Onu, ha parlato di “orrore senza precedenti”. Israele nega.
Le fasi che identificano la crisi alimentare vanno dall’1 alla 5, in crescendo di gravità. Oggi a Gaza il 100% della popolazione è in fase 3 (crisi alimentare), un milione di persone sono in fase 4 (emergenza alimentare), 470mila in fase 5 (catastrofe alimentare). La fase 5 porta alla morte.
Secondo la dott.ssa Baggio, 290mila bambini di età inferiore ai cinque anni è in malnutrizione, il 92% dei bambini tra 6 e 23 mesi non riceve una nutrizione sufficiente e lo stesso vale per le donne incinta. Resta sullo sfondo, ma non secondaria, la situazione psicologica di bambini che vivono senza infanzia, nella paura, tra gli scoppi delle bombe, vedendo morire familiari.
Tra morti e feriti si contano pure medici, personale sanitario e volontari: sono 1.580 gli operatori sanitari morti, persone che non vengono rimpiazzate, mentre i bisogni di cura dei gazawi aumentano e la necessità di un ricambio per chi ancora resiste per portare aiuto si fa sempre più grande.
Anche ai giornalisti palestinesi – gli unici dentro Gaza – non è garantita la sicurezza che viene dalla scritta “Press” (stampa) su giubbotti e caschi: dall’inizio del conflitto ne sono morti 226. Erano gli occhi su una carneficina che nessuno, se non chi è lì, può raccontarci e mostrarci.
A Gaza non si mangia quasi più, si beve troppo poco e si diventa bersaglio mentre si aspetta un pacco di viveri o si stanno seppellendo in un sacco bianco i propri morti.
Pure l’acqua sta diventando un miraggio. E se manca l’acqua da bere, l’acqua per l’igiene personale non è neanche più contemplata. Scarseggia il carburante e con esso viene meno la possibilità di desalinizzare l’acqua di mare. Oggi solo il 10% della popolazione in Gaza ha acqua pulita. In più, dato Fao di aprile, solo il 5% della terra è ormai coltivabile.
Questo è il drammatico quadro dato dai numeri, che non dicono del dolore, delle paure, dei morsi allo stomaco, della vita rapita di chi se ne va anzitempo e di quella straziata di chi resta tra bombe e fame.
E su tutto questo: Hamas tace, Israele spara, gli Usa progettano paradisi turistici. Ora che parte del mondo ha iniziato a farsi sentire a riguardo paiono aprirsi spiragli di rifornimenti: tir ai varchi e pacchi dal cielo. E allora il mondo dovrebbe unirsi di più e trovare il modo per fermare l’ecatombe, figlia dell’odio reciproco di due popoli che, eccezioni a parte, non si sono riconosciuti mai.