Una comunicazione disarmata

Domenica 1° giugno la 59° Giornata per le Comunicazioni sociali, con il messaggio pubblicato a gennaio da Papa Francesco, invita alla mitezza delle parole. Un tema assai ricorrente e quanto mai necessario, mentre non solo il mondo va a fuoco e fiamme e i comportamenti aggressivi e violenti dilagano, ma pure il linguaggio con cui questo si racconta si adegua a un vocabolario guerresco che si insinua, facendosi ricorrente fino al rischio di non essere percepito per quello che è.

Disarmare le parole è stato uno degli ultimi forti appelli di papa Francesco: non solo la pace era ogni domenica l’appello dei suoi angelus, ma pur provato nel corpo dalla malattia e nello spirito dall’angoscia dei conflitti senza fine, aveva voluto scrivere una lettera al Corriere della Sera (18 marzo) con cui lanciare un segno e affidare un compito: “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra”.

Ora che Francesco non c’è più, possiamo ben dire che ha lasciato un’eredità prontamente raccolta dal suo successore, quel papa Leone XIV che, nel quarto giorno dall’elezione, incontrando i media ha ribadito il concetto: “Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra”. Entrando nel dettaglio del lavoro dei giornalisti, sottolineando che la pace comincia da ciascuno di noi, ha quindi indicato la via maestra da seguire nel lavoro di ogni giorno: “Dobbiamo dire no alla guerra delle parole e delle immagini, respingere il paradigma della guerra”. Azioni concrete che si fondano sul desiderio di una comunicazione volta alla informazione e che sottendono scelte precise come il non cercare il consenso a tutti i costi, non rivestirsi di parole aggressive. Indicazioni in decisa controtendenza rispetto all’agire comune dei dibattiti come dei talk o di certe dichiarazioni e conseguenti titoli. Eppure, le parole di Leone XIV sono adese alla realtà perché, se da un lato invitano a una comunicazione rispettosa di ogni persona, al contempo esigono che la stessa sia sempre centrata sulla ricerca della verità. E papa Leone ha subito ricordato anche i giornalisti che, incarcerati od ostaggi, hanno pagato e stanno pagando a carissimo prezzo la dedizione alla missione dell’informazione.

I rapporti sulla libertà di stampa confermano: nel 2024 sono stati circa 550 i giornalisti incarcerati per il loro lavoro di ricerca dei fatti, finalizzato alla denuncia al mondo di soprusi, violenze, prepotenze dell’uomo sull’uomo. Dati in aumento rispetto agli anni precedenti che vedono tra i peggiori paesi come Russia e Israele, ma anche Iran e Cina. Ci sono poi i 55 giornalisti tenuti in ostaggio (come è capitato alla nostra Cecilia Sala in Iran) e quelli morti in servizio: 43 nel 2022, 129 nel 2023 (in Ucraina e Gaza soprattutto), 68 nel 2024.

Il mondo occidentale, pur essendo più libertario, manifesta comunque un peggioramento riguardo la libertà di stampa e di indagine: nella classifica generale paesi come l’Italia e gli Usa perdono posizioni rispetto al passato. L’Italia scende dal 46° al 49° posto, mentre gli Usa passano dal 55° al 57° posto. Per entrambi la memoria conserva scene di attacchi da parte di chi sta al potere contro la stampa come di sfuriate contro singoli giornalisti.

Quel che inoltre preoccupa, sommandosi a tutto questo, è l’insinuarsi sempre più insidioso di un modo di fare informazione che poco ha a che fare con la missione prima del giornalista che è il racconto dei fatti così come accadono: il riferimento va alla crescente narrazione parallela e distorta, volutamente piegata agli interessi di chi la attua o la promuove, che con la verità, il servizio, il rispetto non ha nulla a che fare ma che è piuttosto sintonizzata sul potere politico o economico o agli interessi di un qualche tipo. Quel che oggi accade, è vedere l’azione coercitiva di un potere che assomma nelle stesse mani politica e businnes.

Ecco quindi che, per quanto lontane e ideali, tanto le indicazioni per questa Giornata come la stessa Gionata delle comunicazioni sociali in sé si dimostrano quanto mai necessari: ricordano al mondo che le storture, pur se all’ordine del giorno, restano tali, la consuetudine non le normalizza. Esse ricordano ai giornalisti correttezza e postura, ai media la missione.