Diocesi
Morte di Francesco: messa di suffragio del Vescovo Pellegrini per il Santo Padre mercoledì 23 in San Marco a Pordenone. Omelia

Lunedì dell’Angelo il sole era alto e tutti noi immersi in questo giorno dopo la Pasqua con il cuore ricolmo di gioia e di speranza. La notizia della morte di papa Francesco ci ha colti di sorpresa e ci ha scosso. Sapevamo delle sue critiche condizioni di salute, ma il giorno prima, Pasqua, l’avevamo visto in uno dei momenti qualificanti il pontificato, la benedizione sulla città e sul mondo, ‘Urbi et Orbi’ e dopo tanto tempo, abbracciare il popolo presente in piazza san Pietro. La sua morte si colloca all’interno di una grande luce, la luce del Signore risorto. Una luce che abbaglia e, pur non permettendo di definire bene i confini, ci aiuta a rileggere la vita e la morte di papa Francesco, guidati dalla Parola di Dio, abbondantemente ascoltata in questi giorni. Ci facciamo aiutare dalla Parola del giorno.
Un filo sottile ma reale lega le due letture di questa celebrazione: il cammino. Il Vangelo narra del faticoso e problematico cammino, possiamo dire fuga, dei due discepoli verso Emmaus, lasciando a Gerusalemme la comunità fragile e incerta sul da farsi. Il libro degli Atti ci presenta Pietro che al paralitico incontrato sulla porta Bella del tempio dice: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, alzati e cammina!” (3,6). Mi ritornano alla mente le parole di papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo: “Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita, favorendo la riscoperta del valore del silenzio, della fatica e dell’essenzialità” (n.5). Significativo il dialogo tra Pietro e il paralitico, perché fatto prevalentemente di sguardi che trasmettono la forza dell’amore e della misericordia di Dio. Sguardi che ricordano quelli di papa Francesco, quando si incontrava con le persone. È capitato pure a me: prima di parlare ti fissava negli occhi e quello sguardo diceva tutto, perché ti faceva intuire quello che portava dentro di sé, la forza dello Spirito Santo e l’amore verso Dio e l’umanità. E’ un cammino particolare perché fatto nel nome di Gesù. Lui è la nostra salvezza e solo lui ci può salvare. Ce lo ricorda san Paolo nel bellissimo Inno cristologico della Lettera ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. … Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore” (2,5; 9-11). Il nome di Gesù è in modo assoluto il più grande, il più santo, il più venerabile. È ancora San Paolo che allarga il cuore e dà certezza quando afferma: “Se con la tua bocca proclamerai: Gesù è il Signore, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Romani 10,9).
I due in cammino verso Emmaus non l’avevano ancora capito, anzi fuggono da Gerusalemme perché delusi, tristi e convinti di lasciare alle spalle l’amarezza di una vicenda finita male. Prima di quella Pasqua erano pieni di entusiasmo: certi che quei giorni sarebbero stati decisivi per le loro attese e per la speranza di tutto il popolo. Gesù, al quale avevano affidato la loro vita, sembrava finalmente arrivato alla battaglia decisiva: ora avrebbe manifestato la sua potenza, dopo un lungo periodo di preparazione e di nascondimento. Questo era quello che loro aspettavano. Ma non fu così. Alla domanda del viandante appena incontrato, ne esce una confessione che è un ritornello dell’esistenza umana: “Noi speravamo che …”(Luca 24,21). Anche in tanti di noi ‘speravano’ che il pontificato di Francesco durasse ancora, che il papa si rimettesse in salute e, pur con un’attività ridotta’, potesse nuovamente guidare la Chiesa e il nostro cammino, che potesse ancora per un po’ rimanere segno di speranza per tutta l’umanità. Invece, quando meno ce lo aspettavamo, il Padre l’ha chiamato in Paradiso. Ci siamo sentiti, un po’ tutti quanti come quei due discepoli. Quante volte nella vita abbiamo sperato, quante volte eravamo a un passo dalla felicità, e poi ci siamo ritrovati a terra delusi. Ma Gesù cammina con tutte le persone sfiduciate che procedono a testa bassa. E camminando con loro, in maniera discreta, riesce a ridare speranza, ripetendo per i due discepoli ilgesto cardine di ogni Eucaristia: prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà. In questa serie di gesti c’è tutta la storia di Gesù e anche il segno di che cosa dev’essere la Chiesa. Gesù ci prende, ci benedice, “spezza” la nostra vita – perché non c’è amore senza sacrificio – e la offre agli altri, la offre a tutti.
Questa sera siamo qui riuniti, comunità cristiane e istituzioni civili e militari, per ringraziare il Signore del dono che ci ha fatto e ha fatto alla Chiesa e al mondo di papa Francesco. Siamo tutti addolorati, non solo per aver perso una persona cara e amata, umanissimo e nello stesso tempo carico della presenza dello Spirito, ma per aver perso una guida, un pastore che ha accompagnato in questi 12 anni difficili la Chiesa a rimanere sempre una luce e una guida sicura per tutti, anche nelle situazioni più difficili e tragiche: pensiamo al Covid, alle guerre che insanguinano il pianeta, alla questione degli abusi, alle numerose tragedie ambientali. Papa Francesco in questi anni aveva una visione, certamente donatagli dallo Spirito, che il pianeta appartiene a tutti ed è formato da tanti e diversi popoli chiamati a partecipare alla stessa mensa; tutti fratelli ciascuno con le proprie diversità. È stato il papa del popolo e per il popolo ma mai un populista, sempre attento alla ricerca del bene e della felicità delle persone, con la consapevolezza delle problematiche del tempo presente. Il suo impegno è stato di guidare e condurre la Chiesa nel portare il Vangelo e la parola di Gesù a tutti e in tutte le situazioni, senza mai dimenticare i poveri. Si è fatto vicino al mondo secolarizzato, ma anche alla ricerca di alterità e di spiritualità, per riscattarlo dalla cultura dell’indifferenza che scarta chi non è più produttivo. Ci ha abituati a ripensare il nostro essere Chiesa privilegiando la categoria della ‘Chiesa in uscita, ospedale da campo’, che non si scandalizza del mondo ma che ama le persone, le ascolta e le accoglie, offrendo il bene più prezioso: l’amore e la misericordia di Dio.
È consolante la prefazione che papa Francesco ha scritto nel libro del card. Angelo Scola che uscirà domani: “La morte non è la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa. È un nuovo inizio, perché la vita eterna, che chi ama già sperimenta sulla terra dentro le occupazioni di ogni giorno, è iniziare qualcosa che non finirà”. In una catechesi del 2022 parlando ancora della morte ha ricordato che la morte fa un po’ di paura ma c’è sempre la mano del Signore, e dopo la paura c’è la festa. Questi ultimi giorni di vita di papa Francesco ci hanno dimostrato quanto siano vere le sue parole. La morte è l’inizio di una nuova vita! Grazie papa Francesco per la testimonianza e la fede che ci hai donato. Ora che sei in paradiso non hai più bisogno delle nostre preghiere. Prega e ricordati tu di noi.
+ Giuseppe Pellegrini, vescovo