L'editoriale
Padri dimenticati

Lo smarrimento c’è – e ci sta – di fronte a un mondo che sembra andare a rotoli sotto vari punti di vista e a più latitudini: un fronte ucraino dove due potenti della terra come Putin e Trump fanno a braccio di ferro sulla pelle dell’aggredito e uno israelo-palestinese che ripropone tra l’inefficace sdegno di mezzo mondo le immagini tragiche di fagotti bianchi tra le macerie a testimonianza dei ripresi bombardamenti di Netanyahu. Oltre ai fronti di guerra, pesano sull’Europa gli incombenti dazi trumpiani annunciati dal 2 aprile (il “Liberation day” americano) e la chiusura dell’ombrello militare degli Stati Uniti che obbliga l’Europa a ripensare al riarmo nel nome di una difesa comune: ideata nel passato, finita in un cassetto e oggi ripresa, contestata e già rinviata a giugno.
Nel divampare plurimo di cambi di scena, rispetto alle politiche che si davano per stabili, e in conseguenza delle repentine decisioni da prendere, l’Unione europea, non diversamente dai singoli cittadini, sembra reagire scompostamente: trovata una linea, trova anche – che si tratti di aiuti all’Ucraina o di dazi o di difesa – chi indietreggia, distingue, cavilla e non ci sta. Posto che la libertà di veduta e di espressione è un fondamento irrinunciabile di ogni patto di convivenza democratica, è altrettanto vero che le decisioni riescono più facili e congrue alla realtà quanto sono sostenute da un obiettivo condiviso: nel caso specifico da un’idea, un sogno, di unione più forte della difesa dei singoli interessi nazionali. Non è un potere forte che si invoca, piuttosto un solido pensiero comune – non unico e monocolore ma capace di coagularsi su un minimo denominatore ai fini della compattezza – un pensiero che si faccia guida e possa, pur nell’imprevedibilità degli eventi, mantenere saldo e concorde il passo.
Nei suoi settanta giorni di presidenza Trump ha fatto crollare molti di quelli che per noi occidentali erano punti fermi come l’amicizia con gli Usa, il loro ruolo di difensori, la stessa Nato: strade certe su cui l’Europa ha camminato dal secondo dopoguerra in poi. Come un genitore discutibile, Trump sembra invece lanciare l’Europa in acqua senza salvagente: conviene imparare a nuotare alla svelta.
Si è detto che detto che questi cambi di rotta americani corrispondono ad un preciso disegno del nuovo corso trumpiano: smarcarsi dall’Europa, tagliarle il cordone ombelicale degli aiuti, lasciarla respirare da sola. Un disegno giustificato dal risparmio di risorse per gli Usa, tanto è vero che anche i dazi, che dal 2 aprile dovrebbero calare come tegole non leggere sulle nostre economie – specie quella italiana che vive di export – sono annunciati e motivati dal recupero delle tante risorse Usa investite nel vecchio continente. Non manca però anche un’altra ragione: un disegno che mira a disgregare l’Europa alla luce di quel “divide et impera” che ogni potente conosce. E questa è una bordata del tutto antistorica, rispetto a quanto vissuto dall’Europa negli ultimi ottanta anni.
Le barche ondeggiano anche pericolosamente all’arrivo dell’onda alta, ma chi le governa deve sapere tenerle a galla e portarle fuori tiro. Serve un saldo comando, ma parimenti servono compatti nostromi e un equipaggio unito: obiettivo primo salvarsi, senza distogliere lo sguardo dalla condivisa meta. Invece l’Ue sembra talvolta girare in tondo, “nave senza nocchiero in gran tempesta” (Dante, Purgatorio, Canto VI, v. 77), strattonata tra chi si richiama ai Padri fondatori per infonderle speranza e nuove ambizioni e chi invece li affossa, trovandoli ormai fuori dalla storia e dalla propria visione del mondo. Mentre le raffiche ci sbalzano tra onde impreviste noi, come i capponi di Renzo, continuiamo a beccarci l’un l’altro, rendendo manifesta la constatazione che se grandi e visionari furono i padri, smemorati o ingrati