L'editoriale
Europa in armi

Nessun europeo, da un paio di generazioni a questa parte, avrebbe pensato di sentire parlare di un’Europa che si arma. Non è una prospettiva che possa piacere: troppi echi di guerre, immagini di follie portatrici di morte, sangue, mutilazioni, miseria e distruzioni – lette, viste, studiate, raccontate – hanno tenuto mentalmente alla larga dagli arsenali dopo che, nel solo Novecento, due guerre mondiali fratricide hanno decimato milioni di persone.
I tempi sono cambiati, si dirà: ed è vero. C’è una guerra ai confini orientali, con la Russia accecata da progetti imperialistici di cui non si conoscono bene i confini, e un’Ucraina che resiste all’invasione perché fin qui aiutata da Unione Europea e soprattutto dagli Stati Uniti.
Quel che non va dimenticato è che, stante la guerra ormai da tre anni, non può essere questa la miccia che ha acceso la necessità repentina di mettere in piedi un piano chiamato “ReArm Europe”. Catalizzatore di questa urgenza è stato piuttosto il cambio di rotta degli Usa di Trump, che da una parte sprona l’Europa a contribuire maggiormente alle spese militari della Nato e dall’altra disegna la prospettiva di non intervento nell’eventuale bisogno europeo di soccorso di difesa, minando in tal modo il senso dell’Alleanza Atlantica. Data la sua risolutezza, dimostrata con l’immediata sospensione degli aiuti e Kiev, per orrendo che possa risultare, adesso l’Europa si trova di colpo trascinata al bivio: o resta allo sbaraglio o una decisione va presa.
Il momento è confuso e caotico e decidere nel vortice di eventi inaspettati di tale portata e novità eleva il rischio errore, che più facilmente incombe quando si è chiamati con urgenza a scelte che non erano all’ordine del giorno, poiché poco sentite e condivise in un’Unione europea figlia della guerra e nata con l’obiettivo della pace.
Nel vortice delle cifre richieste (800 miliardi di euro), i paesi membri hanno reagito in ordine sparso: c’era chi non era d’accordo (l’Ungheria che poi però ha acconsentito), chi ha corso molto più in avanti (la Francia con l’idea di portare truppe cuscinetto in Ucraina), chi vuole il nucleare (la Polonia), chi mette paletti per circoscrivere gli scopi della forza militare nascente e delinearne chiaramente la fisionomia (l’Italia).
Nel nostro paese, che ha dato i natali a uno dei padri fondatori dell’Ue, Alcide de Gasperi, è vivo il ricordo che anch’egli aveva pensato a una Comunità europea di difesa (Ced) poi non realizzata. Un ricordo che porta in sé un insegnamento ancora sensato, in quanto indicante la rotta da intraprendere in questo passo che le altrui politiche rendono necessario: ovvero questa difesa da costruire non deve perdere le caratteristiche anche allora allora individuate di forza condivisa, avente la pace come obiettivo supremo e irremovibile. Come dichiarò De Gasperi circa il piano ideato e accettato anche da Adenauer, Schumann e Van Zeland: “Non si tratta di fare uno dei soliti trattati di non aggressione fra due Stati ma soprattutto di un trattato di pace fra stati europei [si era usciti da due guerre mondiali scoppiate in Europa] (…) Non si tratta poi solo di impedire la guerra tra noi ma anche di formare una comunità di difesa, che abbia a suo programma non di attaccare, non di conquistare, ma solo di scoraggiare qualsiasi attacco dall’esterno in odio alla formazione dell’Europa Unita” (da “Il Popolo”, 1 gennaio 1952).