Dal dialogo alla propaganda

Anima del vivere civile come della democrazia è il dialogo, la cui etimologia greca dice che esso consiste nella parola (logos) condivisa tra due o più persone (dia). Per mezzo del dialogo si scambiano opinioni e conoscenze, si confrontano visioni, si chiariscono posizioni; nel dialogo ci si apre all’altro e ci si scontra pure: comunque si interloquisce (si parla tra). Una modalità di comunicazione necessaria da non dare per scontata: dalla famiglia alla politica se ne lamenta invece sempre più la difficoltà, la diminuita capacità.

In questa evoluzione hanno parte in causa anche i social nei quali regna l’autoreferenzialità (il mio profilo, la mia opinione) mentre il dialogo manca: anche laddove si leggano tanti commenti relativi a un fatto, questi hanno piuttosto il valore delle esternazioni o delle sentenze, senza che tra le parti si intessa quel dialogo che è sempre scambio, anche quando si fa dialettico.

Questo stile di comunicazione ormai non si limita più al web ma si va facendo modalità diffusa e parlarsi diventa esercizio faticoso e, senza applicazione, se ne perde l’abitudine e talvolta pure la volontà.

Anche la politica di oggi, figlia dei tempi che vive, sembra scostarsi con disinvoltura dalla pratica del dialogo e questo non è bene, dato che il luogo del confronto tra le persone che i cittadini hanno votato quali loro rappresentanti per amministrare la cosa pubblica (res publica) è guarda caso proprio il parlamento (dal francese parlement, parola che indica l’azione di parlare). L’esistenza stessa di un parlamento si associa alla forma politica della democrazia, nello specifico rappresentativa. L’esercizio del confronto quindi serve e senza di esso, senza dibattito in parlamento, anche la democrazia ne perde. Per questo preferire modalità social al luogo istituzionale del dibattito e della democrazia non è una conquista, specie per il cittadino. Si tratta di modalità di espressione veloci nei tempi ma anche più facili nei modi rispetto al dialogo e al confronto che comportano maggiori fatiche: dire, ascoltare, argomentare, dimostrare. Dire e basta è più sbrigativo: un minuto e mezzo di diretta senza contradditorio ed è fatta. Sulla scelta di questa via però non pesa solo la questione rapidità: conta pure la convenienza.

Dalla Camera (parlamento) alla telecamera (tv) alla webcam del proprio cellulare i passi sono andati spediti. Ma di fronte ai grandi eventi e grandi temi e scelte, specie quelle che vanno a disegnare il futuro (la pace e la guerra, le fonti energetiche, la ricostruzione o l’immigrazione) il dibattito è necessario e imprescindibile.

Se qualcuno esprime quello che pensa con l’intento di far andare le cose così come le enuncia, senza che nessun altro possa concretamente misurarsi con la sua visione annunciata, quel qualcuno sta abbandonando la strada della democrazia e del parlamento per incamminarsi sulle vie del potere personale: quelle degli editti del signorotto di turno delle epoche passate, quelle dei diktat o degli ukaz (dettato dello zar con forza di legge). Al contempo, la società civile deve saper cogliere il cambiamento e ricordare che senza confronto non c’è democrazia ma prepotenza – fino alla dittatura – o propaganda: la seconda è stata spesso a servizio della prima. La propaganda cala dall’alto proprio per influire sull’opinione pubblica e spingerla verso scelte o opinioni che sono di convenienza al potere: Hitler nel 1933 istituì il Ministero della Istruzione pubblica e della Propaganda del Reich.

Per vivere nella democrazia serve il dibattito, quella pratica difficile ed estenuante che, come l’etimologia del termine ricorda, sa però far sì che, attraverso il dibattere (agitare fortemente), una o più materie diverse si incorporino l’una nell’altra. O più visioni distanti trovino la quadra per costruire insieme.