Domenica 21 aprile, commento di don Renato De Zan

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

21.04.2024 – 4° di Pasqua

 

Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: “11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12 Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13 perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.

 

 

Il Testo

 

1. La pericope biblica di Gv 10,11-18 è una parte della spiegazione della “paroimìa-similitudine” (paroimìa = comunicazione per immagini, vive e veloci, di un pensiero molto articolato, intenso e rapido, di non facile e immediata comprensione) di Gv 10,1-6. Con questa “similitudine” Gesù vuole illustrare il nuovo rapporto che c’è tra Lui e gli uomini, tra Lui e i suoi in modo particolare. Poiché i discepoli non capirono subito la paroimìa (“essi non capirono di che cosa parlava loro”: Gv 10,6b), Gesù è costretto a illustrarla e la illustra in due riprese. Prima spiega che Egli è la porta (Gv 10,7-10) e poi che Egli è il buon pastore (Gv 10,11-18, il brano evangelico odierno).

 

2. Alla pericope evangelica la Liturgia aggiunge un incipit: “In quel tempo, Gesù disse”. La formula liturgica è facilmente divisibile in tre momenti. Due momenti sono caratterizzati dalla ripetizione dell’espressione “io sono il buon pastore” nei vv. 11.14. In Gv 10,11-13 troviamo l’antitesi tra il pastore e il mercenario, mentre in Gv 10,14-16 leggiamo il legame tra il pastore e le pecore. Nel terzo momento, Gv 10,17-18, possiamo scorgere il legame tra Gesù e il Padre.

In tutti e tre i momenti sopra identificati si colloca il tema del dono della vita di Gesù a favore delle sue pecore (Gv 10,11.15.17). Nell’ultima ricorrenza Gesù precisa che egli dona la vita (morte salvifica in croce), ma possiede anche la capacità di riprendersela (resurrezione).

 

L’Esegesi

 

1. L’espressione poimèn o kalòs, il buon pastore, esprime il concetto di ideale, di modello di perfezione, di eccellenza. L’espressione “buon pastore”, infatti, equivale a “il modello di pastore”, “il pastore modello”, “il vero pastore”, “il pastore ideale”. Nella comparazione tra il pastore modello e il mercenario emerge un dato. Quest’ultimo pasce solo per interesse, per denaro. Il pastore pasce per amore. Il mercenario permette al lupo di rapire e disperdere le pecore. Il pastore riunisce in unità “i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Il mercenario non è interessato alle pecore (Gv 10,13). Il buon pastore dona la sua vita per le pecore. L’atteggiamento del mercenario è presente nei farisei (maledicono il popolo perché ignorante della legge: Gv 7,49; lo espellono dalla sinagoga: Gv 9,22.34), nei capi del popolo (pensano solo al loro potere: Gv 11,48) e in Giuda (non gli “importava niente dei poveri” // al mercenario “non… importa delle pecore: Gv 12,6 //Gv 10,13).

 

2. Il legame tra Gesù e i suoi discepoli (pastore-pecore) è fondato sulla “conoscenza” (“conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”). Sappiamo che Giovanni adopera il vocabolo conoscenza con il valore di “esperienza”. Parte integrante di questa esperienza è l’ascolto della Parola del pastore. Nell’ultima cena, infatti, Gesù dirà “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). L’espressione “rimane in me, e io in lui” viene chiarita poco più avanti: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…” (Gv 15,7). Il legame profondo tra pastore e pecore è uguale a quello di Gesù con il Padre. Se manca, dunque, l’esperienza con Gesù, il cristianesimo si riduce a una “filosofia” scambiata per fede e a “volontarismo” scambiato per impegno morale.

 

3. L’immagine del pastore senz’altro dipende dal profetismo veterotestamentario. Il Deutero-Isaia, presentando Dio come liberatore dalla schiavitù babilonese, annuncia: “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,10-11). Il suo contemporaneo, Ezechiele, profetizza: “Io stesso (= Dio) condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,15-16). Come Pastore vero Gesù dà la vita per le pecore perché esse abbiano la vita. Questo è il progetto del Padre. Non è un progetto chiuso a favore dei cristiani, ma di tutti gli uomini (“E ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche queste io devo guidare”).

 

Il Contesto Liturgico

 

1. Nella prima lettura (At 4,8-12) Pietro proclama una delle verità fondamentali del cristianesimo: “In nessun altro c’è salvezza” (At 4,12). Gesù è l’unico per mezzo del quale l’uomo ha accesso al Padre. E chi non è cristiano? Ricordiamo ciò che i Padri della Chiesa dicevano: in ogni religione ci sono schegge di vangelo (“i semi del Verbo”). Nella seconda lettura (1Gv 3,1-2) troviamo una traduzione del concetto di salvezza: “Saremo simili a Lui perché lo vedremo così come egli è” (v. 2).