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Vajont60°: il racconto della maestra Teresa d’Incà
La mattina del 9 ottobre 1963 la maestra Teresa D'Incà di Trichiana, che in quel periodo abitava a Belluno, si reca come tutti i giorni a Longarone per far scuola alle alunne della classe quinta elementare. Apparentemente è una giornata tranquilla, la scuola è ripartita da una settimana. Quella mattina, prima di entrare in classe, il collega maestro Paolino De Bona, che abitava con la famiglia nella frazione di Rivalta, pronuncia queste parole che Teresa ricorda molto bene: “Se la diga del Vajont cede, sono il primo a partire!”. La sera il disastro: della sua classe si salvarono solo 5 bambine
La mattina del 9 ottobre 1963 la maestra Teresa D’Incà di Trichiana, che in quel periodo abitava a Belluno, si reca come tutti i giorni a Longarone per far scuola alle alunne della classe quinta elementare. In quei tempi a Longarone le classi erano divise tra maschi e femmine. In tutto 23 allieve alle quali aveva insegnato anche nell’anno scolastico precedente.Apparentemente è una giornata tranquilla, la scuola è ripartita da appena una settimana.Quella mattina, prima di entrare in classe, il collega maestro Paolino De Bona, che abitava con la famiglia nella frazione di Rivalta, pronuncia queste parole che Teresa ricorda molto bene: “Se la diga del Vajont cede, sono il primo a partire!”.La diga non è crollata, ma la devastante onda di morte causata dalla caduta del monte Toc nel bacino della diga, lo ha portato via insieme alla moglie ed alle sei bambine. Il corpo fu ritrovato decapitato. Fu possibile riconoscerlo dall’incisione nella fede nuziale.Questo è solo uno dei tanti drammi che Teresa si trovò ad affrontare e, come molti altri episodi, sono tuttora ben vivi nella sua memoria.
Della sua classe – racconta – si salvarono solo cinque bambine. Dei 153 studenti della scuola si salvarono in 40; e sei dei 14 insegnanti. E la bidella che abitava nella scuola fu portata via dall’acqua, mentre le sue tre bambine riuscirono a salvarsi.È con emozione che Teresa mostra le fotografie scattate alla fine dell’anno scolastico precedente alle sue scolare ed ai suoi colleghi. Immagini di gioia e spensieratezza di un fine anno scolastico.“Nei giorni precedenti la catastrofe – racconta Teresa –gli alunni riportavano in classe discorsi sentiti a casa, raccontando che in paese c’era ansia e preoccupazione per alcuni episodi che si erano verificati alla diga.Sulla strada a monte dello sbarramento erano comparse larghe crepe sulla strada. Erano state svuotate velocemente le malghe dalle mucche e si vedevano gli alberi piegati, segno evidente che il terreno era in movimento. La preoccupazione era comunque generale in tutti i paesi sopra la diga come a Longarone”.“La sera del 9 ottobre – prosegue Teresa – esco di casa ed improvvisamente vedo spegnersi tutte le luci della strada. La televisione in casa non funzionava, decisi cosi di andare a letto. Fu mia zia che il mattino successivo a dirmi che alla radio ed alla televisione avevano dato la notizia che era crollata la diga del Vajont. Parto per Longarone, ma a Ponte nelle Alpi come molte altre persone vengo fermata, non si può proseguire. Apprendo che Longarone come molti altri paesi sono stati spazzati via dall’acqua della diga e non esistono più. Mi salgono l’ansia e un’agitazione interna; in farmacia mi viene dato un tranquillante.Il mio pensiero corre alle mie alunne, ai loro genitori, ai colleghi, non avevo modo di avere informazioni su di loro.Solo la domenica, quando la Croce Rossa mi chiese di portare un materasso in Zoldo ad un sopravvissuto che aveva perso tutto, casa e famiglia, ospite da parenti, riesco ad arrivare nei pressi di Longarone. La via di comunicazione assomigliava più al greto di un torrente che a una strada. Longarone non c’era più, solo un’immensa distesa di fango.Con un grande sforzo il mercoledì successivo il disastro, viene riaperta la scuola. Si riformano alcune classi dove c’era l’archivio del Municipio, vicino alle brande dove dormivano i militari, con l’obiettivo di tenere il più possibile lontani i bambini dalla visione dei morti.Ho potuto così entrare nella mia aula, al primo piano della scuola elementare, che fortunatamente era rimasta in piedi. L’acqua era arrivata al soffitto!Sentivo che dovevo darmi da fare, dovevo fare qualcosa. Bisognava ripartire.Le lezioni iniziavano alle 8, fino alle 5 del pomeriggio. Tenevamo occupati il più possibile gli alunni. Avevo una classe mista di 5 alunne e 5 maschi. I bambini a scuola erano traumatizzati, avevano un blocco totale che impediva loro di esprimersi. Questo durò per mesi, nessuno voleva parlare del dramma del Vajont che aveva sconvolto le loro vite. Il primo giorno di scuola c’erano le televisioni, i giornalisti, i fotoreporter che in qualche modo con la loro presenza hanno aiutato i bambini a mitigare la sofferenza di vedersi cosi in pochi.La domenica con la Croce Rossa andavo a consegnare di pacchi viveri alle persone sopravvissute con lo scopo di capire le loro necessità, il loro stato d’animo e, con grande fatica, provare a instaurare un dialogo, una relazione seppur tra tante difficoltà”.“Nel 2003 – ricorda la maestra D’Incà -, in occasione del 40esimo anniversario, ho voluto ritrovarmi insieme ai mei alunni della classe di allora per una pizza.Insieme a loro ho ripreso in mano le preziose fotografie ed i documenti che avevo: alcuni che mi sono stati donati dai parenti dei miei colleghi deceduti ed i temi degli alunni che ho conservato gelosamente. Tanti piccoli frammenti di un passato al quale sono ritornata – conclude Teresa -, come in un intimo pellegrinaggio, raccolti in una pubblicazione del titolo “Din, dòn, le campane di Longaròn””.
(*) da “L’Azione” (Vittorio-Veneto)