Medici pordenonesi: dalla pensione all’Etiopia con il Cuamm

Maddalena è originaria di Puja di Prata, a Pordenone ha fatto il liceo, ha studiato musica alla "Pietro Edo" e ha cantato con il Polifonico "Città di Pordenone"; poi gli studi in medicina, la laurea e quindi il lavoro nell’Ospedale di Trieste. Ora che è in pensione col marito cardiologo, Franco Balsemin, fa la volontaria con il Cuamm. Attualmente è in Etiopia

Da qualche notizia che gira nei social, vengo a sapere che una mia amica, medico a Trieste, si trova in Africa. La cosa mi incuriosisce e riesco a mettermi in contatto con lei: un sabato pomeriggio è così passato in una lunga telefonata con la dottoressa Maddalena Miccio.Maddalena è originaria di Puja di Prata, a Pordenone ha fatto il liceo, ha studiato musica alla “Pietro Edo” e ha cantato con il Polifonico “Città di Pordenone”; poi gli studi in medicina, la laurea e quindi il lavoro nell’Ospedale di Trieste. “Sono in pensione dal 2020 – racconta – ma sono stata subito richiamata in servizio nel Dipartimento di Prevenzione a causa del Covid e ho lavorato per un altro anno e mezzo; ora finalmente sono qui in Etiopia, con mio marito”, il dott. Franco Balsemin, cardiologo, che sento intervenire nella telefonata in viva voce. Ho voluto saperne di più di questa esperienza e allora ecco la storia.”Siamo qui con il Cuamm – spiega Maddalena – e non è la prima volta. Negli anni in cui il nostro servizio sanitario concedeva ai medici il permesso di svolgere attività di questo tipo, sono stata in Tanzania e in Sudan sempre con il Cuamm e nel 2009 sono stata un anno in Tibet con un’altra organizzazione: un’esperienza incredibile. Ora siamo qui in Etiopia per un anno, fino a settembre. Siamo al St. Luke Catholic Hospital di Wolisso, che ha annessa la scuola per la formazione di infermieri e ostetriche locali”.

Ma come ti è venuta questa spinta alla “medicina missionaria”?“A me è sempre piaciuto viaggiare e nel 2003 sono stata proprio in Etiopia e sono tornata a casa sconvolta per la povertà, la miseria che avevo visto. Ho quindi pensato di sfruttare la mia esperienza di medicina di urgenza e di metterla a diposizione di popoli meno fortunati di noi: ho seguito per un anno, una settimana al mese, un corso di aggiornamento in malattie tropicali. Ho quindi incontrato sulla mia strada il Cuamm che cercava medici da inserire nella sua organizzazione e ho seguito un altro corso”.

Com’è la situazione in Etiopia?“Molto difficile. In teoria vi è la pace col Tigrai (la regione “ribelle” del Nord del Paese, ndr), ma la guerra ha assorbito risorse, ha fatto tantissime vittime, l’agricoltura è abbandonata, vi sono dei gruppi armati che non accettano la pace. Se aggiungiamo la guerra in Ucraina, vediamo che le difficoltà aumentano e la gente non ce la fa a pagare ospedale e medicine: in Africa la medicina è a pagamento”.

E dal punto di vista sanitario?“Con la povertà c’è la fame e quindi tanti casi di malnutrizione. Giorni fa è arrivato da noi un bimbo di 5 anni, pesava 9 chili: per fortuna l’ospedale è attrezzato con la pediatria e la terapia intensiva, sempre piene. Nei bambini le patologie più ricorrenti sono le infezioni e le polmoniti; negli adulti le patologie sono simili alle nostre, quindi insufficienza renale, mononucleosi, sofferenze epatiche, ictus, diabete, ipertensione… Vediamo di tutto, aggravato dalla malnutrizione; c’è tanta tubercolosi: abbiamo un macchinario per i test. È presente l’HIV, ma con le terapia valide che ci sono la malattia non peggiora, ma ci vorrebbe anche una nutrizione adeguata.Un altro problema è il tetano con molti morti. Oggi in Etiopia il vaccino è disponibile per tutte le donne in età fertile e tutti neonati vengono vaccinati, non così i maschi adulti”.

E con il Covid com’è andata?Maddalena a questo punto mi passa il direttore dell’Ospedale, il dott. Enzo Paci, chirurgo, che a Wolisso ha vissuto sia la guerra che la pandemia: “Abbiamo avuto tre ondate – racconta -: la prima molto pesante, mancava anche l’ossigeno, avevamo le bombole vuote, poi un progetto di cooperazione italiano ci ha aiutati proprio con l’ossigeno; la seconda e la terza ondata sono andate meglio. Ora la situazione è tranquilla: agli inizi, però, davano la colpa a noi europei di aver portato il virus”.

Avete vissuto la guerra da vicino?“Diciamo che a Wolisso, nella regione Oromia, più a Sud – continua il dott. Paci – la guerra l’abbiamo vissuta di sponda perché combattevano nella zona Nord-Orientale dell’Etiopia, al confine con il Tigrai. Però, nel pieno della crisi i diplomatici e i civili sono stati evacuati; agli italiani non è stata imposta la partenza e i volontari sono rimasti”.

Che tipo di ospedale è il vostro?“Ha 220 posti letto, è un ospedale cattolico missionario con la compartecipazione della Conferenza Episcopale Etiope e di quella Italiana con i fondi dell’8 per mille. Il Cuamm lo ha sempre supportato dal 2001; era l’unico riferimento sanitario per 1 milione e mezzo di persone, ora vi sono altri presidi pubblici. Il nostro è un ospedale di livello intermedio; quelli specialistici sono in città: noi siamo a 120 km da Addis Abeba e ci vogliono almeno tre ore di auto”.Ringrazio il dott. Paci per il suo contributo e torno in contatto con Maddalena e Franco.Ho una curiosità: ma in Etiopia c’è memoria della presenza coloniale italiana?”Le strade sono ancora lastricate coi sampietrini; diverse parole italiane sono rimaste nel loro linguaggio, come gommista, varechina, motori… Giorni fa è arrivato in ospedale un vecchio di 102 anni (così dice: in Etiopia non esiste l’anagrafe), che quando ha capito che sono italiana, si è messo a dire qualche parola nella nostra lingua: a 16 anni aveva costruito strade con gli italiani, appunto”.

Maddalena e Franco, perché fate questa attività?“Per altruismo? – rispondono – Certo spiace lasciare casa e affetti, ma ci sembra giusto donare ciò che abbiamo imparato e sappiamo fare; amici ci aiutano dall’Italia e noi abbiamo ancora la forza per fare qualcosa, anche se è una goccia nell’oceano. È faticoso, ci sono difficoltà di ogni tipo: siamo anche diventati forzatamente vegetariani, la carne la troviamo solo se andiamo nella capitale. Lavoriamo dalle 8 alle 19, in teoria il sabato pomeriggio e la domenica siamo liberi, ma viviamo all’interno dell’ospedale in casette per i medici e quindi se ci sono emergenze… Se serve siamo disponibili anche per la scuola, che il Cuamm supporta con lo stipendio per gli insegnanti e con borse di studio per gli studenti”.Grazie Maddalena e Franco e buon lavoro! (chi volesse dare un aiuto, può rivolgersi al Cuamm: www.mediciconlafrica.org).Nico Nanni