La serenità di un pastore

Oggi che Joseph Ratzinger chiude la sua lunga esistenza terrena, a chi ha avuto il dono di seguire e di raccontare tutto il suo pontificato viene in mente una parola su tutte: coerenza. La stessa piazza che ha visto l’inizio e la fine del ministero petrino, a otto anni di distanza, registra la cifra di un papato che si può riassumere nell’abbandono sereno, fiducioso e gioioso alla volontà dal Padre. A partire da una certezza: “Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre e anche soprattutto nei momenti difficili”. “La Chiesa è viva”, è “un noi”, come aveva spiegato Benedetto nell’omelia della Messa delle Ceneri, pochi giorni prima del commiato davanti al suo popolo

“La Chiesa è viva!”. È l’udienza n° 348 del pontificato, l’ultima udienza generale prima di rendere effettiva, a Castel Gandolfo, la scelta di vivere “nascosto al mondo”, annunciata l’11 febbraio davanti ai cardinali, in un Concistoro che si è rivelato senza precedenti nella storia della Chiesa dell’ultimo secolo. Benedetto XVI, il 27 febbraio 2013, pronuncia questa frase, in una piazza San Pietro che è un fiume in piena – le stime ufficiali parlano di 150mila persone, ma mentre l’udienza generale è ancora in corso via della Conciliazione si trasforma in una processione interminabile di volti – e la memoria va ad una delle prime esclamazioni del Papa tedesco: la stessa frase, infatti, l’aveva pronunciata il 24 aprile di otto anni prima, nella sua prima Messa da successore al soglio di Pietro.

Oggi che Joseph Ratzinger chiude la sua lunga esistenza terrena, a chi ha avuto il dono di seguire e di raccontare tutto il suo pontificato viene in mente una parola su tutte: coerenza.

La stessa piazza che ha visto l’inizio e la fine del ministero petrino, a otto anni di distanza, registra la cifra di un papato che si può riassumere nell’abbandono sereno, fiducioso e gioioso alla volontà dal Padre. A partire da una certezza: “Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre e anche soprattutto nei momenti difficili”. “La Chiesa è viva”, è “un noi”, come aveva spiegato Benedetto nell’omelia della Messa delle Ceneri, pochi giorni prima del commiato davanti al suo popolo. “Qui si può toccare con mano che cosa sia la Chiesa: non un’organizzazione, non un’associazione per fini religiosi e umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino”. Parole, queste, che risultano ancora di grandissima attualità, sotto il pontificato del suo successore, Papa Francesco.In otto anni, durante le udienze generali del mercoledì Benedetto XVI ha incontrato più di 5 milioni di fedeli: sono state uno splendido esempio di questo sapiente esercizio di ascolto che un Papa teologo, ingiustamente e riduttivamente ingabbiato in un cliché mediatico d’intellettuale rigido e distaccato, ha saputo esercitare grazie alla capacità di entrare nel cuore della gente. I grandi media, spesso, non lo hanno capito; ma per chi, in questi otto anni, ha avuto il privilegio di poter fare un’informazione pensata e non gridata, non alla ricerca dello “scoop” a tutti i costi ma rispettosa del pensiero del Santo Padre, l’appuntamento del mercoledì con Joseph Ratzinger è stato una boccata d’ossigeno. La notizia c’era sempre. A dettarne il titolo, il distillato del magistero di un Papa che ha saputo sempre andare all’essenziale. “Grundlich”, si dice in tedesco con un’espressione quasi intraducibile in italiano, ma ha a che fare con il dono di andare fino in fondo, perché alla base di ogni scelta – fatta sempre al cospetto di Dio e interrogando nel profondo la propria coscienza – c’è la roccia della fede che non delude. Altro che fuga, altro che abbandono: “Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, conferenze. Non abbandono la Croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso. Non porto più la potestà dell’ufficio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro”, le parole usate quel 27 febbraio per spiegare ai fedeli, come ha fatto più volte nei suoi ultimi giorni da Papa, il senso autentico della sua rinuncia al ministero petrino.

Durante il suo pontificato, in uno dei momenti più travagliati della storia recente della Chiesa, alle prese con questioni come lo scandalo degli abusi, “Vatileaks” o il caso Williamson, Benedetto XVI è stato un Papa che, a leggere in profondità, non ha fatto altro che declinare da par suo – nelle sue infinite e ricche sfumature, offrendo ogni volta una “summa” della fede – un unico grande discorso: portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio, rendere presente Cristo in questo mondo e mostrare al mondo che, con Lui o senza di Lui, cambia tutto.

È il filo conduttore, oltre che dei suoi pronunciamenti magisteriali, anche dei suoi tre poderosi volumi su “Gesù di Nazareth”. L’invito, rivolto anche a chi non ha il dono della fede, è quello – ripetuto in tutto il pontificato – ad “allargare gli spazi della razionalità”, per mostrare ai nostri contemporanei tutta la plausibilità della fede cristiana come risposta ai desideri più autentici che albergano nel cuore dell’uomo. Di qui la priorità dell’ecumenismo e della lezione del Concilio, di cui in un testo inedito pubblicato da “L’Osservatore Romano”, riassumendone l’eredità, aveva scritto: “Il cristianesimo deve stare nel presente per potere dare forma al futuro. Affinché potesse tornare a essere una forza che modella il domani. Giovanni XXIII aveva convocato il Concilio senza indicargli problemi concreti o programmi. Fu questa la grandezza e al tempo stesso la difficoltà che si presentava all’assemblea ecclesiale”.Nella sua ultima udienza generale, con la sua straordinaria capacità di sintesi, Benedetto XVI ha descritto in questo modo i suoi otto anni di pontificato: “Il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”. “Ben presto mi troverò di fronte al giudice della mia vita”, le parole affidate alla lettera scritta all’indomani del Rapporto sugli abusi nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, la sua diocesi, l’8 febbraio 2022: “Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi viene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte”. Niente, come queste parole, restituisce la cifra di Benedetto XVI: la sua imperturbabile serenità, quella di un “pastore mite e forte”, così come si è definito nel momento in cui si accingeva a prendere il timone della barca. “La Chiesa è viva”, e con essa l’eredità di Joseph Ratzinger.