L'Editoriale
Fame di pane, fame di pace
Un’antica invocazione recitava “A peste, a fame, a bello libera nos Domine”. Per quanto lontana è tornata purtroppo attualissima nella sua terna di sciagure: una pandemia, una guerra e ora lo spettro della fame che incombe su milioni di persone. Che sia un pericolo concreto lo confermano gli sforzi delle ultime settimane tesi a consentire la partenza delle navi dai porti ucraini, bloccati dai russi.
Un’antica invocazione recitava “A peste, a fame, a bello libera nos Domine”. Per quanto lontana è tornata purtroppo attualissima nella sua terna di sciagure: una pandemia, una guerra e ora lo spettro della fame che incombe su milioni di persone. Che sia un pericolo concreto lo confermano gli sforzi delle ultime settimane tesi a consentire la partenza delle navi dai porti ucraini, bloccati dai russi. Si era mosso Draghi con una telefonata a Putin, poi era stato messo in agenda un Consiglio straordinario dell’Unione europea sulla questione, infine sono intervenuti sia il cancelliere tedesco Scholz sia il presidente Macron, riuscendo a strappare a Mosca l’apertura di corridoi per il grano stoccato a milioni di tonnellate in riva al mare. Vedremo in che modo alle parole seguiranno i fatti.
La questione della fame è estremamente seria. Lo ha dimostrato il rapporto presentato da Fao e Wfo (World Food Programme) al Forum economico mondiale di Davos di fine maggio. Anche l’Onu aveva già dato l’allarme: il blocco del grano colpisce molti paesi, per alcuni di questi è in forse la sopravvivenza. Prima della pandemia, infatti, le persone che soffrivano la fame nel mondo erano 135 milioni, dopo la pandemia sono salite a 276 milioni: senza il grano ucraino se ne aggiungeranno altri 47, per un totale di 323 milioni di affamati. E la fame porta instabilità e migrazioni.
I paesi a maggior rischio alimentare appartengono al Medio Oriente e al Nord Africa, zone del pianeta dove il clima è troppo caldo e secco per coltivare questo cereale. Il citato rapporto ha parlato in particolare di otto paesi: Egitto, Turchia, Bangladesh, Iran, Libano, Tunisia, Yemen, Libia. Sono tutti problematici, fortemente instabili o alle prese con situazioni di guerra; sono legati e coinvolti dal fenomeno delle migrazioni; sono poveri o con molta parte di popolazione in estrema povertà, per la quale gli aumenti dei prezzi significano fame.
Il grano dell’Ucraina è nevralgico: “il granaio d’Europa” è ancora tra i maggiori esportatori al mondo con Russia, Usa, Canada e Francia. Ma Usa e soprattutto Canada, a causa della siccità della scorsa estate, hanno registrato cali di produzione da milioni di tonnellate. Il grano nel mondo scarseggia e i prezzi si impennano (+40%). Se a questo si sommano il blocco del grano ucraino già stoccato e la mancata o ridotta semina a causa della guerra, gli scenari per l’anno che verrà si fanno tragici.
L’Egitto è il paese che spende di più per importare grano: il 60% dalla Russia, il 26% dall’Ucraina. Il prezzo del pane non calmierato dallo stato è cresciuto del 50%; al momento il 70% della popolazione egiziana compra pane calmierato poiché in situazione di povertà.
Il Libano, da due anni in preda a una grave crisi economica, nel 2021 ha importato l’81% del grano dall’Ucraina, il 15% dalla Russia. Analoga la situazione vale per Libia e Somalia.
La precedente grande crisi del grano nel mondo risale agli anni 2008-2009: favorì proteste in una quarantina di paesi, da Haiti alla Costa d’Avorio, e anche le cosiddette primavere arabe trovarono nel prezzo proibitivo del pane un forte input.
Pure la Turchia importa grano: il 67% dalla Russia, l’11% dall’Ucraina. Ne ha un bisogno per sfamare i 4 milioni di profughi accolti, di cui oltre 3,5 milioni di siriani. Li trattiene in base a un accordo pagato miliardi di euro dall’Unione europea, affinché non dilaghino oltre confine. Tra scarsità e prezzi in salita quanto chiederà in più all’Ue per sfamarli?
Quel che è più grave è che anche il Wfp (organizzazione umanitaria dell’Onu che fornisce derrate alimentari ai poveri del mondo) acquista il 70% del grano che distribuisce dall’Ucraina, E se anche il Wfp resta a granai vuoti il dramma è senza soluzione per milioni di persone.
Non è tutto. Data la carenza globale c’è chi corre ai ripari per tutelare la propria popolazione. È il caso dell’India che, alle prese con ondate di caldo estremo che riducono la produzione, ha annunciato il taglio delle promesse esportazioni. Lo scorso marzo, infatti, aveva preventivato di immettere nel mercato mondiale 7 milioni di tonnellate di grano in sostituzione di quello ucraino bloccato dai russi nei porti. Ma la situazione venuta a crearsi, specchio del cambiamento climatico in atto, la riporta sui suoi passi per avere di che sfamare il suo miliardo e mezzo di abitanti.
La questione del grano non è pertanto cosa che non ci riguardi. Se pur noi possiamo sopportare rialzi di prezzo – cosa impossibile alle citate nazioni – sono gli equilibri mondiali traballanti che non possono far sentire nessuno al sicuro. Quella casa comune di cui papa Francesco ha tanto parlato nella Laudato Sì è sotto i nostri occhi nella sua fragilità e in una problematicità interconnessa che nessuno esclude. Per questo, dopo i ricatti di Putin (il via libero alle navi vincolato all’eliminazioni delle sanzioni contro la Russia), è prioritario trovare per quelle navi una via d’uscita certa e garantita. E, di fronte alla situazione mondiale, si dimostra ancora più urgente trovare la via per la pace: per fermare le vittime delle armi e le vittime della fame.