L'Editoriale
Mariupol delenda est
L’accanimento incessante contro una città, volto alla sua completa distruzione, non è né casuale né nuovo alla storia: risponde a un nome e a una strategia precisi. Si chiama urbicidio, parola assonante a tutte le manifestazioni di morte arrecata in modo violento (omicidio, fratricidio, genocidio).
C’è qualcosa che ci risulti più remoto dell’assedio di una città? No, fino a qualche settimana fa. Smemorati della storia, ci resta qualche immagine da film confusa con stinti ricordi di studio tra crociate e castelli presi per fame. Eppure Mariupol è lì, oggi, nella sua straziante agonia, incarnata dai centomila che non sono riusciti a mettersi in salvo.
L’accanimento incessante contro una città, volto alla sua completa distruzione, non è né casuale né nuovo alla storia: risponde a un nome e a una strategia precisi. Si chiama urbicidio, parola assonante a tutte le manifestazioni di morte arrecata in modo violento (omicidio, fratricidio, genocidio).
Il termine è stato coniato dall’architetto, nonché ex sindaco di Belgrado, Bogdan Bogdanovic, che così definì l’atroce attacco che, nella guerra della ex Jugoslavia, fu sferrato a città come Sarajevo, Vukovar – letteralmente annientata – e Mostar, dove la convivenza di due culture, che molta parte del mondo vuole in lotta, si era concretizzata nel suo ponte ottomano. Congiungeva molto di più che le due sponde del fiume Narenta: da una parte si trovava infatti la comunità cristiana con le sue chiese e la sua vita all’occidentale, dall’altra quella musulmana, con il suk e le moschee. Due comunità capaci di pacifica convivenza e per questo da annientare, come il ponte. La stessa logica ha portato a colpire Sarajevo, multietnica concentrazione e mescolanza di genti e fedi, a cavallo – ma non in bilico – tra oriente e occidente.
Non è per amor di vecchie storie che si ricordano queste città ferite a morte, quanto per indicare che quel che oggi accade sotto i nostri impotenti ed allibiti occhi ha l’amarissimo sapore di una storia ripetuta e mai imparata.
Anche se ogni guerra vanta proprie ragioni e si muove sulla spinta di proprie ideologie, gli esiti di distruzione e morte confermano che l’obiettivo resta immutato: l’annientamento del nemico. Accadde a Dresda e a Lovanio (nelle Fiandre) durante le guerre mondiali, è accaduto ad Aleppo. Ma è oltre Adriatico, in tempi e luoghi così vicini a noi, che l’urbicidio ha perfezionato la sua strategia.
Non è marginale dedicarsi a questo aspetto, poiché prefigura quanto accadrà quando finalmente le armi taceranno. L’urbicidio, non è un crimine senza vittime e non si risolve in un elenco di edifici distrutti. Le città senza abitanti non sono che spettri vuoti, fantasmi di quello che furono. Così come se pure salvassimo tutti i cittadini e li portassimo in un’urbe nuova non potremmo dire d’aver salvato la città.
Le città non sono solo la scenografia di migliaia e milioni di vite, ne sono parte integrante. Sono una complessità sfaccettata in cui case, palazzi, parchi, negozi, fiumi, persone, piazze, chiese, monumenti, stazioni, storia e storie si mescolano, formando un unico organismo vivente. E chi vuole annientare una nazione, estirpando non solo un modus vivendi ma anche un modus pensandi opposto e inaccettabile, ne colpisce i gangli vitali. Tanto è vero che già si parla di quella in corso come di una guerra tra civiltà.
Così si cannoneggia Odessa, strategica via del mare per la Russia, ma anche regina del Mar Nero, città italiana per antonomasia (il centro neorinascimentale nacque dall’opera quarantennale del nostro architetto Francesco Boffo nella prima metà dell’800), città di traffici e cultura, esperta di stragi per i bombardamenti subìti nella prima e nella seconda guerra mondiale, che oggi – sotto il tiro delle navi russe – sa suonare “Va pensiero”, il più libero dei canti
Così sono sotto attacco Kiev, che agli occhi dell’invasore è la madre ingrata, l’antica capitale che si ribella a colei che pure le fu patria e la tradisce con l’azzurro sogno europeo. Così si minaccia la medioevale Leopoli, al confine col molle occidente. Così si martirizza Mariupol, misera per l’infelice posizione geografica che la rende pietra di inciampo sulla strada della riconquista russa di territorio e potere. Stimata quanto un pedone da mangiarsi e proseguire, la cittadina si è resa ancor più invisa per l’indefessa resistenza. E per questo, perché si oppone ad ogni costo al sogno che l’invasore persegue, merita il martirio completo secondo il metodo che Francesco Mazzucchelli ben ha descritto nel volume “Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni nella ex Jugoslavia” (Bonomia University Press). Perché cancellare una città, farne macerie, raderla al suolo fino a renderla irriconoscibile ai suoi cittadini va ben oltre al non lasciare pietra su pietra: significa mandare in fumo le vite di chi la abitò tanto che, pur facendo ritorno, si sentirebbero estranei in patria o in quel che ne resta.
La dinamica è già metodo: attacco multiplo con fanteria, artiglieria, aviazione; poi assedio spinto fino alla lotta casa per casa; ogni edificio istituzionale abbattuto, ferito, reso inservibile e spesso irriconoscibile (municipio, teatro, ospedale, chiese, cimiteri compresi); le case marchiate dalla guerra, mitragliate dai kalashnikov, sventrate, incendiate, rese scheletri come i cittadini affamati, depredate e violate come ancora si racconta delle donne.
Con l’annientamento dei muri si fa tabula rasa della storia, della cultura, dell’anima di una città, fatta di luoghi dove passeggiare, ascoltare musica, pregare, vedere uno spettacolo, fare acquisti. Si cancellano le infrastrutture (stazioni, porti, centri logistici), i luoghi di lavoro (aree industriali e commerciali). Con l’uccisione della città si rende impossibile la vita.
La storia è antica. Non potendo venire a patti col nemico, Catone il censore in più riprese si rivolse ai senatori romani per convincerli al gesto estremo, affermando: “Carthago delenda est” (Cartagine deve essere distrutta). E così fu: dopo un assedio lungo due anni, la città cadde per fame e pestilenza (146 a. C). Eppure, racconta lo storico Polibio, ci fu tra i conquistatori chi pianse: era Scipione l’Emiliano, che vide in quella catastrofe la prefigurazione della sorte di Roma. I giorni diranno come andrà a finire e Iddio ci illumini e ci renda capaci di distruggere la guerra, prima che la guerra distrugga noi.