Abramo Freschi da giovane sacerdote aiutò gli esuli a Udine

Subito dopo quel 10 febbraio 1947, del quale ricorre ora il 75°, proprio don Freschi si era prodigato per dare a Udine - luogo critico perché molto vicino alle zone cedute alla Jugoslavia e quindi di prevedibile forte afflusso di giuliano dalmati esodati - un primo conforto e assistenza, materiale e pure morale per le contingenze politiche molto tese 

Da noi il “Giorno del Ricordo” di foibe ed esodo è venuto a sovrapporsi dal 2005 all’anniversario della morte del vescovo Abramo Freschi, morto a Pordenone il 10 febbraio 1996. Era il giorno anniversario del Trattato di pace di Parigi che quasi cinquant’anni prima aveva definito il nuovo e fortemente penalizzante per l’Italia confine suo orientale.Subito dopo quel 10 febbraio 1947, del quale ricorre ora il 75°, proprio don Freschi si era prodigato per dare a Udine – luogo critico perché molto vicino alle zone cedute alla Jugoslavia e quindi di prevedibile forte afflusso di giuliano dalmati esodati – un primo conforto e assistenza, materiale e pure morale per le contingenze politiche molto tese in cui l’esodo veniva a segnare la loro vita: si trattava infatti di provvedere a famiglie intere che, praticamente senza niente, scappavano dalle angherie del regime titoista né sapevano quando e dove sarebbero finite.L’emergenza si presentava impervia per lo sfollamento in particolare dalla città di Pola (28000 i partenti su 31000 residenti).Allertatasi la Pontificia Commissione di Assistenza (PCA), essa si affidò alle capacità di don Freschi, notissimo per la regia nel maggio 1945 – due anni prima – dell’operazione reduci rientranti in migliaia, affamati, nullatenenti e spesso ammalati, dai fronti di guerra dell’Europa centrorientale. Furono allora inviati da lui a Pola due sacerdoti udinesi suoi stretti collaboratori. Questi si trattennero là circa otto mesi (la città portuale fu effettivamente ceduta, in applicazione ai dettami del trattato, il 15 settembre 1947 e fino a quella data continuò a essere presidiata dalle forze angloamericane), realizzando immediatamente tre mense, due refettori, più altri posti ristoro e per confezione di pacchi viveri. Si prodigarono, come detto, per l’assistenza pure religiosa e morale a persone in procinto di lasciare tutto in preda al terrore: nell’agosto dell’anno precedente c’era stata la strage intimidatoria antitaliana di Vergarolla, con oltre cento connazionali periti sulla spiaggia polese causa il doloso scoppio di residuati bellici.Don Freschi supportava gli inviati con cospicui aiuti, fra i quali uno stock di 550 coperte per i dormitori pure allestiti a beneficio di coloro che erano rimasti senza alloggio. La febbrile attività caritativa dal Friuli venne fatta oggetto per tutto ciò di attacchi calunniosi da parte del regime subentrante, cui gli inviati risposero evangelicamente con la provvista e distribuzione di aiuti ulteriori a favore della popolazione, senza distinzione etnica. Essi lasciarono infine la città, semideserta, insieme agli ultimi italiani partenti con la tristemente nota motonave Toscana: lasciando Pola, non si scordarono di quanti restavano e provvidero loro ancora viveri, distribuendo le scorte residuali di aiuti alle carceri, alla casa di ricovero, alle famiglie bisognose.Si calcola che i giuliani assistiti dalla PCA, attraverso l’organizzazione coordinata da Udine da don Freschi, furono circa 24.000.Gli esuli si riversarono d’un colpo, e in una parte numericamente considerevole, sul capoluogo friulano. Il problema si rovesciò ancora una volta sul tavolo di don Abramo Freschi, sulla sua organizzazione già ribattezzata la “centrale della carità per il Friuli”.Per garantire un ricovero provvisorio a tanta gente negli stessi giorni, egli di necessità dovette ricorrere agli ambienti di alcune parrocchie. Nella sola cripta del Tempio Ossario sostarono e pernottarono un migliaio di profughi, privi di tutto, adagiati sulla paglia. Altri locali vennero da lui trasformati in camerate a San Giorgio Maggiore, a San Giuseppe in viale Venezia, al Redentore, luogo in cui era iniziata nel 1937 la sua attività sacerdotale e caritativa, al Carmine di via Aquileia (luogo del Beato Odorico da Pordenone) e nel vicino Seminario arcivescovile; ai pasti provvidero le mense da lui messe in azione ai tempi dell’operazione reduci.Passati i due tre giorni dell’emergenza, don Freschi in persona, chiamato poi a fare parte del Comitato provinciale di Patronato per i Rifugiati Italiani, diresse lo smistamento degli esuli nelle destinazioni loro mano a mano assegnate. Per alcuni non fu cosa immediatamente possibile.Dal luglio 1947 venne allora attivato un campo profughi a Udine in via Pradamano: l’assistenza vittuaria quotidiana in esso fu curata dalla “Pontificia” di don Freschi (una quarantina di refezioni in media al giorno), e ciò fino all’aprile 1960, per ben tredici anni. Qui gli istriani, esodati a ondate successive, trovarono alloggio per i giorni necessari al proseguimento verso le loro destinazioni.Nel 1948 la media mensile dei transiti di esuli fu di oltre 2000 (50-60 ogni giorno); nel 1949 furono smistati oltre 10000 profughi. Nel triennio 1947-1950 oltre 34000 furono coloro che, passando per il campo di via Pradamano, trovarono la “Pontificia” di don Abramo Freschi pronta a rifocillarli sin dall’arrivo alla stazione ferroviaria, dove essa aveva allestito un posto di primo ristoro aperto giorno e notte e che nella sola prima metà del 1948 assistette 16000 persone. Per molti di tali esuli la meta fu proprio questa terra dove oggi vivono loro e i loro discendenti mescolati ormai al generoso popolo friulano.