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Una bella storia di accoglienza: sei migranti in famiglia
"Aggiungi un posto a tavola": un famoso musical lo dice. La famiglia Calò lo ha pensato e fatto e di posti a tavola ne ha aggiunti sei, accogliendo sei profughi, sei ragazzi sbarcati in Italia, sei migranti provenienti da Gambia, Guinea-Bissau, Ghana e Costa d’Avorio. Una follia chiamata amore per il prossimo, per la giustizia sociale, per l’umanità. Un libro di Ediciclo ne racconta la storia
“Aggiungi un posto a tavola”: un famoso musical lo dice, lo canta e lo balla per un’ora e più di spettacolo, ma da qui a farlo sul serio ce ne vuole. Invece la famiglia di Antonio Silvio Calò lo ha pensato e lo ha fatto e di posti a tavola ne ha aggiunti sei, accogliendo sei profughi, sei ragazzi sbarcati in Italia, sei migranti provenienti da Gambia, Guinea-Bissau, Ghana e Costa d’Avorio. Una follia chiamata amore per il prossimo, per la giustizia sociale, per l’umanità.
LA STORIAAntonio Silvio Calò è un professore del liceo classico “Canova” di Treviso. E’ sposato con Nicoletta Ferrara e ha quattro figli. Nel 2015, di fronte all’ennesimo naufragio sulle coste siciliane si dice “Dobbiamo fare qualcosa”, non basta parlare di accoglienza. Condivide il pensiero con la sua già numerosa famiglia: la moglie è con lui, i figli pure. Perché dice: “Non avrei mai preso una decisione di questo genere senza il loro consenso”.L’idea era infatti impegnativa: accogliere qualche giovane nella propria casa, farlo entrare nella propria esistenza cercando di dare tutto il necessario per costruire la cercata vita nuova.Non sapendo come muoversi, è andato a chiedere il da farsi in Prefettura per rendersi disponibile all’accoglienza in casa propria. La risposta: “Ma lei è fuori completamente!”. Antonio non si scoraggia: la decisione è presa. Così diventa, insieme alla sua famiglia, il primo caso italiano di accoglienza in casa. Un modello per la “accoglienza diffusa” che ha camminato fino al cuore dell’Europa.I numeri hanno inciso, anche perché alla fine i ragazzi arrivati e accolti sono stati sei, più i suoi quattro figli (una femmina e tre maschi) fa dieci giovani bocche, più lui e sua moglie fa dodici: dodici persone da nutrire e per cui cucinare, dodici cambi di biancheria, di scarpe, di tutto.La prima cosa che si è imposta è stata l’organizzazione della vita domestica; poi trovare la strada da percorrere con i giovani migranti al fine di raggiungere l’ambizioso obiettivo della loro emancipazione.
LA VITA IN CASACalò racconta che nei primi quindici giorni sono stati praticamente chiusi in casa a Camalò di Povegliano in provincia di Treviso: loro dovevano abituarsi al clima e alla situazione, mentre gli abitanti del piccolo centro dovevano abituarsi a sei profughi in quella piccola comunità. Sei africani nel cuore della provincia di Treviso, la più leghista d’Italia. All’inizio non sono mancati insulti sui social, poi la situazione si è placata quando il paese ha visto come si comportavano i ragazzi che pian piano hanno suscitato le simpatie della comunità.”I primi tre mesi sono stati dedicati alla accoglienza vera – dice il prof. Calò – a lenire i lutti e le sofferenze fisiche e spirituali di questi ragazzi, tutti con una storia incredibile da raccontare. Ci siamo dedicati a loro, cercando di infondere un po’ di sicurezza”.Ciò non significa che la vita quotidiana sia stata facile: tutto si è fatto caotico e rumoroso. Dodici persone, di cui dieci giovani, non sono a basso volume e impatto domestico zero.Primo scoglio la lingua: diversa non solo verso la famiglia italiana ma anche tra i singoli migranti, ciascuno dei quali aveva un proprio diverso dialetto. Hanno finito col parlare un misto di francese, portoghese, inglese.Secondo la cucina: gli africani hanno usi e gusti diversi. E allora la mamma ha presto introdotto una regola di reciproca conoscenza e scambio: a pranzo sempre cucina italiana, a cena sempre l’africana. La famiglia Calò cucinava la mattina; i migranti la sera.Terzo l’organizzazione della vita di dodici persone in casa: si è compilato un calendario per i turni di cucina, per lo sfalcio del giardino, per i bagni e la lavanderia, le pulizie. Razionalità e precisione hanno agevolato la quotidianità.Quarto: la religione: “Loro sono sei musulmani osservanti, noi sei cristiani più o meno osservanti”. I Calò hanno messo a loro disposizione una stanza per la preghiera e permesso ogni venerdì di recarsi in moschea; rispettati i tempi e gli orari del ramadan.Quinto: comportarsi bene. La Polizia andava saltuariamente a controllare la situazione.Sesto: il rapporto col paese. Dapprima scettico, con qualche caso di aperta contrarietà, ha finito col misurarsi in una gara di solidarietà. A casa Calò arrivavano viveri, vestiti, aiuti e perfino sei biciclette: una per ciascuno dei ragazzi accolti.Settimo: la gestione della storia. Ben presto infatti la notizia di quell’anomala accoglienza si è sparsa e a Camalò di Povegliano sono giunti giornalisti di piccole e grandi testate nazionali e internazionali (perfino Al Jazeera da Londra). Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, li ha premiati al Quirinale nel 2015 con l’Onorificenza Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica. E nel 2018 il Parlamento europeo gli ha assegnato il premio “Cittadino europeo 2018” constatando che l’esempio di accoglienza messo in piedi dai Calò “poteva essere un modello virtuoso da seguire e promuovere”.
L’EMANCIPAZIONEIl passo successivo è stato quello più difficile: raggiungere l’emancipazione dei ragazzi.Innanzitutto la scuola: “Ho imposto fin da subito l’obbligo della scuola, ma un obbligo vero, che li impegnava a frequentare ogni giorno senza eccezioni” spiega Calò. Così i sei nuovi arrivati dal lunedì al giovedì frequentavano la scuola media, il venerdì era per la preghiera. Due volte la settimana, per tre ore alla volta, una insegnante andava a casa per lezioni di lingua e cultura italiana.E’ stata pure loro affiancata una psicologa: per due anni e mezzo un pomeriggio alla settimana per terapia di gruppo e dialoghi personali.Un medico ha fatto il punto circa le loro condizione di salute e li ha seguiti nel percorso delle vaccinazioni.Un avvocato ha aiutato la famiglia per tutte le pratiche conseguenti all’accoglienza: “E non ha mai voluto un soldo per il suo aiuto” precisa Calò.Va da sé comunque che tra vitto, vestiario, scuola, insegnanti di supporto e quanto necessario era indispensabile un aiuto economico che è giunto “da un fondo europeo e in parte dallo Stato italiano”.
UN LABORATORIOIl caso Calò è diventato un esempio di quella che oggi chiamiamo “accoglienza diffusa”. Tanto diffusa che, dopo di loro, la loro parrocchia, mettendo a disposizione un locale, è arrivata ad accogliere complessivamente trentadue migranti.Calò spiega nel dettaglio come è stato possibile, anche dal punto di vista economico, affrontare il tutto: “Il contributo è di 30 euro al giorno per ogni rifugiato. 30 euro per sei persone, per trenta giorni” porta a 5.400 euro. Che sono stati spesi così: mille per le spese alimentari, 1.400 per l’operatrice che si occupava delle pratiche mediche e legali, 500 per l’insegnante di italiano, 700 per la psicologa, 250 per bollette, 200 per uso auto e benzina, 200 per le spese sanitarie, 450 la paghetta (divisa per sei, 75 euro al mese), e altre voci ancora.
IL LAVOROLa sfida più grande è stata però farli entrare nel mondo del lavoro. I ragazzi sono stati ben integrati nella comunità, specie perché li vedevano sempre impegnati e non ciondolanti col cellulare in mano. Durante le estati si sono resi disponibili per piccoli lavoretti di giardinaggio dei vicini, hanno condiviso lo sport – oltre che le magliette – con i “fratelli” di casa. Ma da qui all’emancipazione c’era tutto da inventare.Papà Calò: “Dopo un anno era necessario avviarli a un lavoro. Era fondamentale un tirocinio di formazione… Bussavo alle porte delle aziende e dicevo ’Prima gli italiani… Ma se ci sono posti che gli italiani non vogliono…’. Così tutti e sei hanno trovato un tirocinio rimborsato con 400 euro al mese per sei mesi. Due hanno fatto i lavapiatti, tre sono entrati in una cooperativa agricola, uno in una falegnameria (l’unico che non ha avuto una esperienza positiva). Di sei: cinque hanno subito tramutato il tirocinio in contratto a tempo determinato; anche il sesto ha trovato occupazione in una tipografia.Piano piano sono poi arrivate la patente e la casa indipendente. “Dal primo gennaio 2020 racconta Antonio Calò – tutti i ragazzi abitano in una loro casa frutto della raggiunta autonomia”. Due risiedono vicino ai Calò (il campo base), due si sono spostati avendo trovato lavoro fisso più lontano, uno ha avuto la casa direttamente dal datore di lavoro. Per un periodo tre si sono messi a vivere insieme, come fratelli acquisiti.
IL LIBRO La bella storia della famiglia Calò è diventata nell’ottobre 2021 un libro, edito da Ediciclo, casa editrice di Portogruaro, e scritto a quattro mani da Antonio Silvio Calò e Silke Wallemburg (giornalista) dal titolo “Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa” (140 pagine, 15 euro).Porta due contributi importanti: la prefazione di David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo e la postfazione di Romano Prodi, ex Presidente del Consiglio e della Commissione europea (vedi citazioni a lato).Tra i lunghi ringraziamenti, Antonio Calò cita quelli che definisce i maestri: don Giovanni il parroco della sua comunità “l’esempio, il faro di questa storia… L’uomo che con la sua coerenza ci ha insegnato a essere e diventare testimoni”; don Luigi Ciotti, don Pierluigi Di Piazza, una serie di sacerdoti dei suoi dintorni e il vescovo (ora emerito) di Treviso Gianfranco Agostino Gardin “per le sue telefonate puntuali, apologetiche…”.Simonetta Venturin