L'Editoriale
Due tragedie per u anniversario
Un anniversario di lutto si avvicina: i vent'anni dagli attacchi terroristici alle Torri gemelle di New York, tremila morti e uno shock che rende ancora insostenibili allo sguardo le immagini degli schianti degli aerei come delle nuvole di fumo e cenere che pietosamente offuscarono il volo disperato di chi vi lavorava. La reazione è stata una guerra al terrorismo durata vent'anni che ha ottenuto solo di riportare i talebani al potere
Un anniversario di lutto si avvicina: i vent’anni dagli attacchi terroristici alle Torri gemelle di New York, tremila morti e uno shock che rende ancora insostenibili allo sguardo le immagini degli schianti degli aerei come delle nuvole di fumo e cenere che pietosamente offuscarono il volo disperato di chi vi lavorava. Il mondo Occidentale rimase impietrito di fronte a tanta inimmaginabile barbarie, organizzata e realizzata da al-Quaida guidato dal saudita Osama bin Laden.
La reazione immediata degli Usa di George Bush Jr. la conosciamo bene: ci coinvolse e ci ha coinvolto nell’inatteso finale quanto nell’impegno umanitario del ponte aereo per il salvataggio dei collaboratori cercati casa per casa dai talebani.
Questi vent’anni hanno portato 2.448 soldati americani uccisi (e 53 italiani), quasi mille miliardi di dollari spesi. Uno spreco umano, quello delle vittime di guerra, che non ha mai giustificazione e uno spreco di risorse che sono spese bene quando edificano non quando distruggono. E l’Afghanistan, uno dei paesi più poveri del mondo, non offre che l’imbarazzo della scelta quanto a bisogni: scuola, sanità, economia, infrastrutture sono tra le vittime non scritte di decenni di guerra. La storia recente di questo paese scorre infatti tra due binari: la presenza di potenze straniere (Russia prima, Usa poi) e i conflitti interni tra militanti islamici di diverso orientamento e medesima sete di supremazia. Il risultato è un paese che registra tassi di mortalità materna e infantile tra i più alti al mondo, che presenta un alto numero di persone con disabilità: arti mancanti per lo scoppio di mine o esiti di poliomielite, malattia debellata ovunque tranne che in due nazioni, Pakistan e Afghanistan. Forse per questo un paese tanto caro al fondatore di Emergency, Gino Strada, che proprio il giorno prima di morire all’Afghanistan ha dedicato il suo ultimo articolo. Anche l’analfabetismo regna incontrastato, marchiando la metà della popolazione: 45% degli uomini e il 70% delle donne. L’unica fonte di reddito – e crescente – viene dalla coltivazione dei papaveri da oppio, i cui lavoranti ricevono da uno a tre dollari al mese, mentre i mandanti accumulano tesori. Eppure per questo paese martoriato e misero, che fu culla di civiltà e oggi è tomba di diritti, truppe interne ed esterne sono pronte a uccidere la pace e rubarsi la vita del popolo.
Se è vero che gli americani e le forze alleate che hanno condiviso questi due decenni di presenza in Afghanistan hanno preso le distanze dalla guerra (un recente sondaggio vede contrari il 70% degli statunitensi), è altrettanto vero che – se non la democrazia – migliorie concrete nella vita della popolazione sono pur giunte: sanitarie e scolastiche in primis. A beneficiarne le giovani generazioni e le donne che, proprio nei giorni successivi alla repentina presa di Kabul da parte dei talebani – il 15 agosto -, hanno sfilato con orgoglio, velate sì ma della bandiera nazionale contro il vessillo talebano e contro il nome della nazione cambiato in quell’Emirato islamico afghano in cui non si riconoscono. Ora temono per la loro stessa vita, dato che i talebani, pur offrendo alla scena internazionale parole di rassicurazione e amnistia, vanno attuando vendette contro i collaboratori delle potenze straniere. Anche la questione dei diritti delle donne è all’attenzione del mondo come dei talebani stessi, che stanno però dimostrando la netta separazione tra il loro dire e il loro fare. Come se non bastasse, su tutto piovono le minacce, concrete e già attuate, dell’Isis: così nuove stragi incombono sul popolo afghano.
Se i fatti valgono più delle parole c’è un gesto che conta più di ogni altro: i figli issati sopra il filo spinato dell’aeroporto di Kabul nella speranza di un futuro ovunque fuorché lì, affidati alla sorte come nuovi Mosè (Francesco Ognibene, Avvenire). Se non sappiamo più vederne la straziante disperazione allora non possiamo comprendere nessuna sofferenza. Tocca a noi il ruolo della figlia del faraone che pietosa accolse nella reggia il bambino, figlio di un popolo schiavo. Lo hanno ricordato papa Francesco come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Così, mentre ad Oriente continua lo stillicidio di vittime quotidiane, ad Occidente gli americani attendono l’11 settembre con un dolore ugualmente non spento. Come lo ricorderanno adesso?
In questi vent’anni alle lacrime per i morti di allora si sono aggiunte quelle per i morti e feriti dei soldati della coalizione, ma anche quelle della popolazione afghana. Gli Usa contavano di raggiungerla con una esportata democrazia e la sconfitta dei talebani, non ci sono riusciti e come ha chiosato il capo della diplomazia europea Joseph Borell: “Nel cuore dell’Asia è in corso una catastrofe”.
La sconfitta dell’impresa pesa sugli Stati Uniti, disegna scenari difficili in Europa (questione profughi) e spegne i sogni delle nuove generazioni afghane che avevano conosciuto vent’anni di conquiste, abbattute dai kalashnikov dietro lo scudo della shari’a.
Il ventesimo anniversario dell’11 settembre presenta dunque un bilancio senza vittorie né conquiste su entrambi i fronti. Elemento comune le lacrime di madri, mogli e ragazze: ad Occidente per figli e compagni persi nelle Torri e in un impegno militare lontano e in parte incompreso; ad Oriente per l’orrore della guerra a cui si somma la consapevolezza delle donne di aver perduto, insieme al banco di scuola, la libertà di esseri umani e la speranza in una vita che non sia obbedire, servire e partorire figli a mariti imposti, nascoste agli occhi del mondo sotto il cielo fasullo di un burqa azzurro.