Rifugiati alle olimpiadi

Nei primi giochi olimpici senza pubblico causa pandemia, saremo tutti spettatori da divano. Siamo pronti a fare il tifo per i nostri atleti di casa non meno che per i rifugiati, certi che daranno tutto se stessi non solo per levare al cielo una medaglia ma anche per far trionfare la nuova possibilità di vita concessa.

Rifugiati

alle olimpiadi

di Tokyo

Simonetta Venturin

Probabilmente ciascuno di loro ha avuto momenti e giorni in cui si è sentito perso, smarrito e in pericolo di vita. Probabilmente pochi di loro hanno immaginato di arrivare lì dove stanno per andare: alle Olimpiadi che si aprono a Tokyo venerdì 23 luglio. E nel corso della cerimonia inaugurale dovrebbero sfilare, entrando nel nuovissimo Japan National Stadium, subito dopo la Grecia terra madre dei Giochi.

Sono atleti alquanto particolari: nessuno tra di loro vedrà sventolare la bandiera della propria nazione né sentirà risuonare il proprio inno in caso di vittoria: per tutti si leveranno le note dell’inno delle Olimpiadi e sventolerà la bandiera bianca con i cinque cerchi colorati.

Sarà così per 29 atleti apolidi: parteciperanno, unici al mondo, non in rappresentanza di una nazione – la propria – ma di uno status giuridicamente riconosciuto che condividono: rifugiati.

E’ la seconda volta che accade. La squadra olimpica dei rifugiati è infatti stata istituita nel 2015, nata dalla collaborazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e il Comitato olimpico internazionale (Cio). La prima partecipazione è siglata Rio 2016, dove i rifugiati arrivarono con una squadra di soli dieci atleti: due nuotatori siriani, due judoka della Repubblica Democratica del Congo, sei corridori provenienti da Etiopia e Sud Sudan.

A Tokyo arrivano triplicati, portando sulle spalle la responsabilità e l’orgoglio di rappresentare 82 milioni di uomini e donne che come loro hanno abbandonato o stanno abbandonando case, famiglie e nazioni. Sono uomini e donne in fuga da guerre e persecuzioni, ma solo 26 milioni su 82 si sono visti riconoscere la condizione di rifugiato.

Tra i 29 atleti scelti (selezionati tra 56 candidati iniziali), dieci sono donne e diciannove uomini; provengono dagli undici paesi oggi più rischiosi al mondo: Siria (9), Iran (5), Sud Sudan (4) Afghanistan (3) e poi da Iraq, Eritrea, Camerun, Repubblica del Congo, Repubblica democratica del Congo, Sudan e Venezuela.

Gareggeranno in dodici diverse discipline: ciclismo, nuoto, atletica e atletica leggera, sollevamento pesi, judo, karate, lotta, boxe, taekwondo (arte marziale coreana), canoa e tiro. Tra i loro allenatori anche l’olimpionico azzurro della carabina Niccolò Campriani.

Se le olimpiadi sono sempre uno spettacolo di pace, da quando vi partecipa la squadra dei rifugiati si fanno concreta manifestazione di un mondo di civiltà possibile. Thomas Bach, presidente del Comitato olimpico internazionale ha riconosciuto il loro ruolo di sportivi e di ambasciatori di speranza: “A Tokyo il 23 luglio invierete un potente messaggio di solidarietà, resilienza e speranza al mondo: siete parte integrante della nostra comunità olimpica”.

Non è finita qui. Dopo le olimpiadi si terranno, sempre a Tokyo ma un mese dopo, anche le Paraolimpiadi (24 agosto – 5 settembre). Ebbene, una delegazione di sei rifugiati (una donna e cinque uomini) sarà presente anche a quelle: sono atleti paralimpici che gareggeranno nelle specialità di nuoto, atletica, canoa, taekwondo. Se cerimonia ci sarà, entreranno per primi allo stadio, portando anch’essi la bandiera a cinque cerchi.

Andrew Parsons, presidente del Comitato internazionale paralimpico ha dichiarato: “Esorto tutte le persone a sostenere la squadra sportiva più coraggiosa del mondo… Questi atleti sono l’esempio di come lo sport possa essere un fattore di cambiamento: hanno subito lesioni che gli hanno cambiato la vita, sono fuggiti in cerca di salvezza e hanno intrapreso viaggi pericolosi, ma nonostante i numerosi ostacoli sono diventati atleti d’eccellenza”.

Tra gli atleti a Tokyo ci saranno prima i nostri due olimpici Alessia Trost per il salto in alto e Mirko Zanni pesistica (ma anche Daniele Molmenti, medaglia d’oro a Londra 2012 e ora dirigente tecnico della nazionale canoa), poi i tre paraolimpici Catia Aere, Giada Ros, Antonio Fantin (handbike, tennis tavolo e nuoto).

Nei primi giochi olimpici senza pubblico causa pandemia, saremo tutti spettatori da divano. Siamo pronti a fare il tifo per i nostri atleti di casa non meno che per i rifugiati, certi che daranno tutto se stessi non solo per levare al cielo una medaglia ma anche per far trionfare la nuova possibilità di vita concessa.