L'Editoriale
Far fiorire la pace
Era il 1967 quando dal palco di San Remo "I Giganti" cantavano "Mettete dei fiori nei vostri cannoni"... Anche oggi non manca chi sogna anche sotto una pioggia di razzi: lo ha fatto Fania, figlia dello scrittore israeliano Amos Oz, che si è messa all’incrocio di due cittadine - una israeliana e una araba - a distribuire fiori e spighe agli automobilisti di passaggio.
“Mettete dei fiori nei vostri cannoni” una frase che ricorda gli anni ’70 e l’attivismo pacifista ai tempi della guerra in Vietnam. Era il 1967 quando dal palco di San Remo “I Giganti” cantarono una canzone con questo titolo. Il testo raccontava di una città dove i giovani andavano per strada con un cartello sulla schiena inneggiante ad un mondo di cannoni caricati a corolle, capaci di sparare “note musicali che fanno fiorire gli accordi per una ballata di pace”. Un sogno tanto benefico quanto ingenuo dato che le armi restano un business senza confini e i conflitti lacerano ancora il mondo, generando dolore, lacrime e morte.
Eppure, non manca chi sogna anche sotto una pioggia di razzi: lo fa fatto Fania, figlia dello scrittore israeliano Amos Oz, scomparso nel 2018 ma molto noto per saggi e romanzi. Fania, che vive in Galilea, nel pomeriggio del 13 maggio si è messa all’incrocio di due cittadine a distribuire fiori e spighe agli automobilisti di passaggio. Da una parte della strada c’è l’israeliana Zikhron Ya’aqov (in ebraico “Ricordo di Giacobbe”), dall’altra parte l’araba Fureidis (in arabo “Piccolo eden”). Siamo a una trentina di chilometri da Haifa, sulle pendici del monte Carmelo: anche qui, come giornali e tg da giorni spiegano, vi sono esempi di convivenza tra israeliani e arabi ma basta un niente perché la polvere di quelle terre si trasformi in polvere da sparo e gli animi mutino. Qui, da quando l’eterno conflitto israeliano-palestinese si è riacceso, i razzi fanno paura quanto la guerra civile, che trasforma in nemico il vicino di casa.
La popolazione israeliana è per un buon venti per cento araba per questo Fania Oz, docente universitaria che col padre ha scritto libri contro il fanatismo, si è preoccupata di non apparire l’artefice di una gentilezza formale. Il suo gesto è stato creduto: presto a lei si sono unite altre persone, compresi i sindaci delle opposte cittadine.
Non sarà un fiore a fermare il conflitto senza fine tra Israele e Palestina, ma è pur vero che la cultura della pace cresce piano, seminata con instancabile pazienza da parole e gesti credibili, capaci di generare nuove visioni del mondo.
Sulla bilancia della giustizia che pesa torti e ragioni palestinesi e israeliani ballerebbero un bel po’ prima di trovare l’equilibrio: nessuno dei due dovrebbe scagliare la prima pietra, invece lo fanno entrambi, rispondendo a una implacabile sete di vendetta. Non c’è parte in causa che non abbia sofferenze scritte negli album di famiglia, alberi dai rami spezzati anzitempo da azioni violente.
David Grossman, altro scrittore nato a Gerusalemme, vive col dolore di Uri, il figlio perso nel 2006 nella guerra del Libano al quale ha dedicato due romanzi: “A un cerbiatto somiglia il mio amore” e “Caduto fuori dal tempo”. Come lui, in questi giorni, centinaia di famiglie palestinesi piangono mariti, mogli, figli morti nei recenti attacchi. Non tutti si difendono però impugnando la penna: dall’una come dall’altra parte. E violenza dopo violenza, quel sogno di pace chiamato “Accordi di Oslo”, che vide Rabin e Arafat darsi la mano nel cortile della Casa Bianca (e che le diplomazie internazionali stanno cercando di replicare) è molto lontano, minato dall’assassinio di Rabin, cancellato dalle riprese azioni di guerra.
Entrambi gli Oz, padre e figlia, si sono distinti nell’impegno contro il fanatismo. Loro stessi ne sono stati vittime: la loro famiglia proveniva infatti dalla Polonia, terra amata e abbandonata all’affermarsi del nazismo per trovare rifugio ad Haifa. La madre di Amos, Fania – nome che lui ha dato alla figlia – si uccise quando lui era bambino, incapace di vivere quel cambiamento; suo padre reagì facendosi sempre più duro e intransigente tanto che Amos fuggì in kibbuz e cancellò il suo cognome cambiandolo in Oz (forza).
Non sono che due storie note tra tante sconosciute che, di qua e di là dei due stati, come al di qua e al di là dell’incrocio, si scrivono più comunemente impugnando armi, lanciando sassi e coltivando odi.
Il perché sta forse in una dichiarazione di Fania: “Netanyahu (primo ministro di Israele ndr.) non è un fanatico ma ha coltivato i fanatici perché ne aveva bisogno per restare al potere”. Vale per lui come per chiunque scateni odi e guerre a servizio di se stesso o dei potenti di turno. Intanto le vittime continuano a salire e, lancio dopo lancio, l’inimicizia si asseta di vendetta, alimentando un circolo vizioso che non sa trovare fine.
Che le due parti condividano dolore e lutti non è motivo sufficiente a fermarle, mentre il mondo assiste spaventato e le diplomazie sono al lavoro per un Oslo bis. Cosa non facile: chi è al potere gioca la sua prova di forza, ma tocca sempre ai singoli – madri, padri, fratelli e sorelle – fare i conti con i letti vuoti, immersi in un dolore che noi, figli di una comoda pace, non possiamo comprendere. E cosa mai potremmo rispondere a un padre che, come Grossman, del figlio ucciso scrive: “Lui è morto, ma la sua morte non è morta”. Forse niente se non porgere un fiore e una spiga.