Diocesi
Omelia del Vescovo Pellegrini concattedrale San Marco
Il vescovo per il patrono della Città: "E' necessario metterci alla sequela del Signore, per dare un significato profondo alla nostra vita e per interpretare e comprendere la difficile situazione che stiamo vivendo. Il perdurare della crisi sanitaria, sociale e spirituale, la ripartenza che sembra ancora lontana e la paura, lo scoraggiamento e la sfiducia"
Carissimi,
ci troviamo insieme, in questo periodo non facile, come comunità cristiana e civile per celebrare la festa di San Marco, patrono della nostra città. Marco, discepolo di Pietro, per primo ha messo per iscritto le parole di Gesù che sono alla base della vita della prima comunità Cristiana, di tanti uomini e donne che si sono raccolti insieme per cercare di vivere come ha vissuto Gesù. Mai come ai nostri tempi, questa Parola è necessaria per metterci alla sequela del Signore, per dare un significato profondo alla nostra vita e per interpretare e comprendere la difficile situazione che stiamo vivendo. Il perdurare della crisi sanitaria, sociale e spirituale, la ripartenza che sembra ancora lontana e la paura, lo scoraggiamento e la sfiducia ci portano a chiuderci in noi stessi e a preoccuparci solo del nostro bene, dimenticandoci che il bene personale è e deve essere anche il bene di tutti. Siamo qui, perché il Signore ci aiuti a riaccendere la fiamma della speranza e ravvivare la fede che si è un po’ affievolita. La Parola di Dio, in particolare il Vangelo di questa domenica, ci invitano ad accogliere e fare nostro lo stile di vita di Gesù, proponendolo a tutti coloro che nella Chiesa e nella società, credenti e non credenti, assumono un ruolo di guida, a servizio delle comunità e del bene comune.
L’immagine di Gesù Buon Pastore ci viene consegnata per continuare il cammino della vita come discepoli, consapevoli e felici di poter contare su Gesù, che non ci lascia mai soli e che cammina insieme con noi, offrendoci un esempio concreto e una prospettiva di servizio autentico alle persone. L’affermazione solenne ed audace di Gesù: “Io sono il buon pastore” (Giovanni 10,11) ha sorpreso gli uditori, perché ha applicato a sé il ruolo di guida e di salvatore che Dio stesso aveva con il suo popolo: “Il Signore è il mio pastore” del salmo 23 e le parole riportate dal profeta Ezechiele nel discorso sui pastori di Israele: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare” (34,15). Una precisazione va fatta sull’aggettivo ‘buono’ (in greco kalòs) usato da Gesù. Tra i tanti significati che si possono dare al termine buono, molti commentatori preferiscono il significato di vero, autentico. Gesù non si presenta come un pastore tra i tanti, ma come quello più veritiero e autentico, che viene a guidare il suo popolo e a salvarlo da una storia piena di sopraffazioni e di soprusi. Diversi profeti nell’Antico Testamento hanno denunciato capi, re, principi, sacerdoti, giudici… che invece di comportarsi come pastori veri, che dovevano prendersi cura del popolo, lo hanno derubato e strumentalizzato. Gesù si presenta come il buon pastore, quello vero e autentico.
A questo punto mi sorgono alcuni interrogativi: quali sono le caratteristiche e le particolarità che Gesù ci propone per essere ritenuto non un mercenario ma un vero pastore? Come Gesù descrive la sua missione? Il pastore vero, non è il campione o l’eroe, colui che con un colpo di bacchetta magica cambia gli eventi della storia, ma è il servitore fedele che con spirito di servizio e di gratuita si prende cura del gregge, pronto a morire per proteggerlo. Sant’Agostino nel lungo discorso fatto sui pastori ci ricorda che il cattivo pastore è quello che cura se stesso e non le pecore, che prende il latte e la lana. Nel Vangelo Gesù parla del mercenario, che sfrutta il gregge perché è solo un bene da sacrificare per il proprio tornaconto personale. Il mercenario è una persona che opera per un compenso e si fonda su logiche economiche o di opportunismo. Non è veramente interessato alle pecore, ma solo al guadagno che ne può trarre. Perciò quando si trova di fronte a un rischio che non vale il prezzo del suo interesse, fugge e abbandona il gregge.
La pagina evangelica, mette in luce un altro aspetto interessante dello stile di Gesù: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (v.14). Il verbo conoscere nel linguaggio biblico abbraccia un ampio arco di esperienze che vanno dall’intelletto al cuore, dalla comprensione all’amore, dall’affetto all’azione. Tra il pastore e le pecore si instaura un intimo rapporto di conoscenza e di comunione profonda di vita, in intimità e reciproca fiducia. Il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui. Queste parole portano in sé tutta una carica affettiva ed emotiva, legata al dialogo di amore tra le persone, in un rapporto che mette in relazione stretta ogni persona con la propria guida e il proprio pastore. Una conoscenza che non si chiude nel proprio tornaconto personale ma che si apre e ci fa sentire, come ci ricorda Papa Francesco, “Fratelli tutti”. “Ho altre pecore – dice Gesù – che non sono di questo recinto: anche quelle io devo guidare” (v.16). Il buon pastore è guidato da una logica di amore gratuito, di dono di sé, di desiderio di relazione che fanno crescere l’altro senza impossessarsi di lui, senza manipolazioni e sfruttamenti, in un clima di libertà e autentica che crea relazioni. Il pastore autentico ha un cuore grande, capace di amare non solo se stesso, il proprio tornaconto personale, ma amare tutti gli altri. La comunione con Gesù non si riduce in un rapporto individualistico e intimistico, ma ci rende partecipi della sua preoccupazione, chiedendoci di fare altrettanto, di essere anche noi pastori verso gli altri.
L’immagine del Buon Pastore, anche se lontana e di non facile comprensione, può esserci utile per rileggere i tempi di oggi e soprattutto per aiutarci ad esercitare il compito di guida e di responsabili della comunità, nella Chiesa e nella società. La storia di ieri e di oggi è piena di capi di popoli, di politici, di guide spirituali che si atteggiano a salvatori e liberatori, ma spesso, camuffati da buoni propositi, invece di servire seducono le persone con astuzia e inganni, manipolando le coscienze. Gesù, invece, non ha niente da nascondere; non ha nessun interesse personale da difendere né proprietà da proteggere, perché è mosso solamente dall’amore. Carissimi, siamo invitati tutti a metterci in gioco senza barare. Quando scegliamo di metterci a servizio degli altri e del bene comune, sia per noi uomini di Chiesa che per chi è scelto dal popolo, sempre dobbiamo mettere noi stessi e la nostra vita al secondo posto. Veramente siamo chiamati a non considerare più la nostra vita e i nostri interessi personali una priorità assoluta, ma metterci al servizio degli altri, entrando nella logica del dono di sé. Ogni situazione di prova, di difficoltà e di tribolazione, come stiamo vivendo in questi tempi, ci mettono davanti a delle scelte che non sono facili e che scontentano sempre qualcuno. Per tutti, la posta in gioco è chiara: o porci dalla propria parte, dalla salvaguardia dei propri interessi personali o metterci al servizio degli altri. al servizio del bene comune, con onestà, gratuità, libertà e verità.
Concludo con una bella considerazione di Papa Francesco: “Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza. Cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e più forti” (Fratelli tutti, 194).
+ Giuseppe Pellegrini
vescovo