Noce di Casarsa: le Famiglie affidatarie si raccontano

La storia nell’ambito del nostro speciale per la festa del papà

L’associazione di Volontariato il Noce di Casarsa da più di trent’anni segue le famiglie affidatarie. In occasione della festa di San Giuseppe abbiamo raccolto le testimonianze di due papà affidatari.

“Lunedì mattina in ufficio con una revisione contabile in corso mi vibra il cellulare privato, è un numero dell’azienda sanitaria, forse è qualcosa di importante, rispondo. È l’assistente sociale che chiede se la mia famiglia è disponibile a prendere un neonato in affido per un po’ di tempo. Domando quando è nato, risposta: “Ieri!”.

Mi accascio sulla sedia, passa qualche secondo in cui provo a riprendere il controllo sulle mie emozioni, mi prendo una notte per pensarci, devo parlarne con mia moglie. Ci accordiamo per sentirci l’indomani.

Raggiungo mia moglie al mare, la chiacchierata della sera e la notte di tempo che ci siamo presi servono per spiegare alla nostra mente “che pensa che siamo folli” quello il cuore ha già deciso: non si può lasciare quel bambino da solo.

Il giorno dopo accettiamo la proposta e iniziamo a prepararci, avvisiamo i nostri figli e partiamo per questa avventura.

Ci sono mille cose da fare, in 5 giorni bisogna preparare qualcosa per cui di solito ci si mette 9 mesi, restando al mare e senza fare clamore con parenti e nonni. Per fortuna il fare ci occupa la testa e questo ci fa arrivare al week end in modo quasi inconsapevole.

Vedo G. per la prima volta la domenica, mi viene incontro nel braccio di un’ostetrica, con una tutina di almeno due taglie più grande e con un ciuccio rosa più grande della sua faccia. Pensavo di essere preparato, forte, ma non c’è niente che ti può preparare a tutto questo, è amore puro a prima vista vorrei stare li con lui per sempre, cerco di contenere le emozioni ma la forza di una vita nuova sconvolge tutto, vorrei coccolarlo, riscaldarlo, vederlo sempre sorridere cosi. Ero arrivato pensando che ero lì per dare qualcosa a lui e mi accorgo in un momento che è lui che sta dando a me molto di più. Lo portiamo a casa e ho subito la conferma di tutto questo, tutti intorno a me cambiano in meglio, ai nonni passano i dolori, i bambini aiutano e si prendono responsabilità, io e mia moglie troviamo energie insperate. Io mi ritaglio un momento della giornata per stare solo con lui, la mattina presto, facciamo il biberon e poi grandi discorsi e con i “ghe” e i sorrisi mi spiega il suo parere sul senso della vita e su quali sono le cose importanti, e pian piano capisco che probabilmente ha ragione lui.

Poi il nostro servizio è finito e lui ha proseguito il suo percorso in un’altra famiglia, ma un pezzo di lui è sempre qui con noi, nelle foto, nell’impronta delle sua mano assieme con quelle dei nostri figli in un quadro in salotto, nei ricordi di quelle chiacchierate mattutine che si affacciano nei miei pensieri quando sono triste e mi fanno scendere una lacrima di gioia che rimette tutto a posto, mette le cose nel giusto ordine di importanza.”

ALESSANDRO “Nel mio caso, l’esperienza di essere papà affidatario è stata anche l’unica modalità di essere papà, poiché non ho figli, e devo dire che è stato, mi si passi l’espressione, molto naturale.

Per come funziona l’affido, ogni storia è diversa dalle altre, però tipicamente non c’è molto preavviso, spesso non si hanno mesi per farsi delle idee, per “prepararsi”, si parte per un viaggio di cui non si vede la meta, succede tutto velocemente, un po’ come lanciarsi col paracadute: bisogna saltare e si salta.

Tutte le emozioni si comprimono e ci attraversano in un tempo brevissimo, mille domande si affollano in testa, da quelle banali sull’organizzazione delle cose di casa, a quelle più difficili: cosa dovrò dire, come dovrò essere certe situazioni… un sacco di prime volte!

Poi la realtà mi ha fatto capire subito che la maggior parte delle preoccupazioni erano superficiali e facilmente risolvibili, e con gradualità ho scoperto cosa invece mi avrebbe messo di più alla prova: ho scoperto lati del mio carattere di cui non avevo consapevolezza, ho dovuto trovare modi nuovi per esprimermi, ho dovuto migliorare la mia capacità di ascoltare, non solo i bambini, ma anche chi ha diviso con me questa avventura.

Ho potuto constatare come i bambini cercassero da me certe cose e dalla mamma altre, e piano piano mi si chiariva quale fosse il mio ruolo: alla fine credo di essere stato semplicemente un compagno di viaggio, uno che può aiutare nelle cose materiali, ma soprattutto condividere nel senso più profondo un tratto di strada, affrontare insieme le salite, e ugualmente assieme godere delle scoperte, dei panorami, degli incontri.”