Speciali
Dieci anni di cammino con il Vescovo Giuseppe
Le tre fatiche del Vescovo
Anche un vescovo ha le sue fatiche. Fatiche pesanti, per il ministero che svolge e il posto che ricopre. Fatiche insidiose, per le preoccupazioni e i timori che suscitano interiormente in profondità. Nessuna fatica poi viene da sola, ma è come un grappolo di interrogativi, dubbi e tensioni. Sappiamo che non mancano nemmeno le delusioni e i fallimenti.
Nessuno di noi è vescovo, per cui possiamo e dobbiamo mantenere un giusto profilo di discrezione e di rispetto. Sentiamo comunque il dovere di condividere le gioie e le tribolazioni del pastore che la Chiesa ci ha donato.
La fatica delle relazioni. Il nostro vescovo Giuseppe ogni tanto racconta più o meno così: “Quand’ero prete della mia diocesi, anche vicario generale, vivevo relazioni alla pari con i miei confratelli. Ora più facili e ora più difficili, ma sempre su un piano di reciprocità nello scambio e nel confronto. Diventato vescovo ed entrato in un’altra diocesi, il contesto è cambiato radicalmente. Rimango fratello dei miei preti, ma nello stesso tempo sono per loro padre e pastore, con precise e gravi responsabilità. Come trovare l’equilibrio migliore tra ascolto nel dialogo fraterno e azione di orientamento e di guida, con le decisioni conseguenti?”.
Il nostro presbiterio diocesano – come ogni altro probabilmente – è una bella compagnia, ma anche un simpatico campionario di caratteri, storie, ambizioni.
Certamente le prime e principali relazioni di un vescovo sono con i suoi preti, ma non solo. Esistono tanti altri rapporti, ai vari livelli, sia nella comunità ecclesiale diocesana sia con la società civile e le realtà istituzionali. Ci sono i fedeli laici, una realtà ricca e articolata che domanda ascolto vero e dialogo convinto nel cammino della partecipazione e della corresponsabilità; e ci sono i sindaci e gli amministratori, i datori di lavoro e i lavoratori, ci sono uomini e ci sono donne, ci sono i favorevoli e ci sono i contrari… e chi più ne ha più ne metta. Il vescovo è chiamato a stabilire contatti, a consolidare legami, a gestire conflitti; e questo diuturno, inesausto facchinaggio costituisce un’avventura esigente, talora ardua.
La fatica del cambiamento. Il vescovo Giuseppe è arrivato in mezzo a noi non solo con esperienze diocesane, ma anche dopo aver svolto incarichi per la Conferenza episcopale italiana, nei quali ha rivelato notevoli capacità organizzative. Ha mostrato fin dall’inizio un piglio molto dinamico e intraprendente, soprattutto nella ricerca di nuove strade rispetto alle sfide dell’evangelizzazione nel nostro contesto sempre più secolarizzato. L’arrivo “dalla fine del mondo” e l’opera riformatrice di Papa Francesco ho hanno confermato nei suoi propositi e progetti di rinnovamento dell’azione pastorale nelle parrocchie e nella diocesi. I metodi tradizionali di conservazione e di contenimento ormai sono obsoleti e qualche volta patetici, o forse eroici. Come operare per il cambiamento tra continuità e novità? La maggior parte di noi preti non è più di età giovanile, con abitudini di vita e di ministero consolidate e talora rigide. Per i confratelli più giovani, invece, sembrano qualche volta traballare le fondamenta e farsi incerte le prospettive.
Cambiare sì, ma cambiare cosa e cambiare come? Quali sono le priorità e quali le urgenze? L’urgente non sempre è amico dell’importante; e talora né questo né quello sembrano al momento possibili. Attendere o accelerare i processi? E nella stagione senza precedenti e senza confronti della pandemia, quale misura di attenzione al presente e di slancio verso il futuro?
La fatica della speranza. Questa fatica – mi pare di capire – assilla l’animo di un pastore più in profondità. Certamente oggi nessuno diventa vescovo pensando di ottenere chissà quali risultati, dal punto di vista numerico e quantitativo. Sono tramontati i tempi dei successi e degli applausi, se mai ci sono stati realmente. Le autorità ecclesiastiche oggi fanno i conti con difficoltà crescenti nella vita delle parrocchie e nella pratica religiosa, per l’accostamento ai sacramenti come anche per le vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata. Quali speranze condividere, per suscitare energie positive? E’ possibile sognare in questo tempo di crisi e di declino? Quali obiettivi perseguire, per essere generativi di buone pratiche e di processi promettenti?
Il traguardo dei dieci anni simbolicamente segna una svolta, ma richiede investimenti coraggiosi e complessi. Sta prendendo avvio il cammino sinodale, che si propone di coinvolgere l’intera Chiesa diocesana in alcune scelte di grande portata innovativa, ad esempio nell’organizzazione del servizio pastorale di preti e diaconi nelle parrocchie e nelle unità pastorali. Verso quali traguardi orientare il cammino della Chiesa di Concordia-Pordenone?
Non credo che il nostro Vescovo si senta solo nelle sue fatiche, queste e tante altre, magari ancora più onerose e delicate; no, sono convinto che avverta l’incoraggiamento dei suoi preti, della sua gente, di tanti responsabili delle istituzioni. Papa Francesco, ultimamente nella Lettera apostolica Patris corde dedicata a san Giuseppe, ci ha ricordato ancora una volta la “logica della debolezza”, da accogliere con coraggio creativo; al vescovo Giuseppe e a noi tutti auguriamo tanta “tenerezza combattiva”: “È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10)”.