Il pediatra Sabino: Lettera ai genitori di un bambino morto

Ho pensato e ripensato prima di mettermi a scrivere. Sono un vecchio pediatra di 79 anni... Era il maggio 1976. Assistevo impotente alla lunga agonia e alla morte del nostro secondo figlio

Ho pensato e ripensato prima di mettermi a scrivere. Sono un vecchio pediatra di 79 anni che dopo la pensione da ospedaliero nel 2006, continuo a lavorare e a scrivere.Era il maggio 1976. Assistevo impotente con la fronte appoggiata sul vetro dell’incubatrice, con vicino la sola suora, alla lunga agonia e alla morte del nostro secondo figlio, Giovanni. Avevamo già Luca di 4 anni. Placenta previa, ripetute emorragie con la peggiore inarrestabile alla 31^ settimana. Cesareo urgente in imminente pericolo di vita e nascita di Giovanni gr 1.200 , il 4 maggio. Viene messo in incubatrice. Alle 21 il terremoto e poi la lunga fatica per morire, fatica a respirare senza poter essere intubato.Sono cattolico, credente e praticante, l’ho battezzato io. Non c’era assistenza e attrezzatura adeguata per un prematuro e non si poteva trasferire. Mia moglie non ha potuto mai vederlo.Si passa attraverso stati di stordimento, di confusione, di tristezza, rabbia, rifiuto. La coppia è distrutta, smarrita…Perché proprio a lui, perché proprio a noi. Si può parlare, dire, scrivere senza ” sentire”, senza sentimenti, senza emozioni, ma allora è inutile, non serve. L’ empatia, la sim-patia, il con-patire, il con-dividere, il con-partecipare, il con-prendere il con-piangere: ecco il ” sentire” che altri ti sono vicini e hanno provato sulla loro pelle quel tremendo, straziante dolore, forse aiuta e ti offre la possibilità di spezzarlo, di sopportarlo. L’accettazione della morte diventa più tollerata se c’è la Fede in Dio.Mi ci è voluto un po’ di tempo per spegnere quell’urlo del mio cuore e della mia mente: “Ma perché al nostro bambino, perché a noi, ma Dio dove sei?”.Poi il dolore viene proiettato in un’altra dimensione, torna il nostro credere ( pensi a un Figlio in croce e a una Madonna ai piedi): il “nostro” figlio continua a esistere nella nostra mente nel nostro cuore, ma perché sentiamo e sappiamo che esiste, che vive ancora e “il ricordo” è un passato o un presente o addirittura un futuro?Noi genitori soli, alle volte abbandonati, isolati ” fisicamente” ci proiettiamo col nostro essere ” uomini” nel contesto “di una umanità”: genitore e pediatra pensi ai bambini morti in quella stessa notte sotto le macerie del terremoto, morti per un incidente, per una malattia o dilaniati da una bomba di una stupida e inutile guerra, morti di fame, di stenti in campi profughi e pensi ai loro genitori. Posso ancora definirla dolorosa solitudine?Questo “singolo” pensare angosciato, questo “singolo” soffrire, escono allora fuori dal corpo, fuori dalla mente, fuori dal cuore e pur senza parlarsi, pur senza toccarsi, si incontrano con altri genitori in un “dove”, forse “in alto”, sopra le nubi, in un abbraccio di sentimenti e di sensazioni, fuori dallo spazio, fuori dal tempo.Ho letto: “Scrivere di queste cose, come in fondo, di ogni altra cosa, diventa esercizio e moralismo banale e contribuisce forse a far “consumare” i sentimenti esprimendoli.” Ora lo sto pensando anche io, nel dubbio se spedire o no. Ma anche questo è un rischio obbligato: i sentimenti vanno esercitati, per non estinguersi. La morte quando arriva e dove arriva e il dolore esercitano i sentimenti dell’uomo che non si piega alla morte per non doversi piegare su se stesso. Pensare di far nostro il dolore degli altri costituisce una esercitazione obbligatoria, anche a costo di essere artificiale.Capire che il senso della “cura” che si dà a qualcuno e della ” cura” che si riceve è quello che costituisce il seme di ciò che lega l’uomo con l’altro uomo: è in fondo il senso della vita, l’Amore per il prossimo (non facile!) che un credente come me ha imparato da Gesù, ma che non vale niente di più rispetto a un altro uomo che lo applica con un altro “credo” religioso o no.Antonio SabinoPediatra