Il Covid e la nostra fragilità davanti alla morte

Prima le morti in casa, la famiglia radunata ad assistere e consolare. Poi la morte è stata fatta uscire di casa e ci si è sempre più affidati all’ospedale in un duplice tentativo, uno sano e cioè rendere la morte meno dolorosa, l’altro malsano e cioè allontanare la morte il più possibile anche a costo di un accanimento terapeutico. Poi il Covid e la morte lontana...

mortali e abbiamo scoperto dal lunedì al martedì che non lo siamo… abbiamo scoperto una parola nuova che conoscevano bene i nostri nonni, ci siamo scoperti vulnerabili”.San Francesco chiamava la morte sorella “dalla quale nessuno homo vivente pote scappare…” e chiedeva ai suoi Frati di stare accanto a lui, steso sulla nuda terra, nella notte del 3 ottobre.Poi è successo che sempre di più la tecnologia e la scienza ci hanno fatto pensare che si poteva contrastare la morte con la medicina. Quest’anno però il coronavirus ha reso evidente che non è così, che veramente la nostra vita è fragile, è come un filo d’erba, basta poco perché sia stroncata.Ma il dramma emotivo è più difficile in chi muore o in chi resta?In passato la condivisa consapevolezza che la fine naturale di ogni umana esistenza è la morte rendeva tutti più preparati a questo certo evento e, chi moriva, soprattutto se ricco di anni e di esperienza, moriva a casa con figli e nipoti accanto. Poi la morte è stata fatta uscire di casa e ci si è sempre più affidati all’ospedale in un duplice tentativo, uno sano e cioè rendere la morte meno dolorosa, l’altro malsano e cioè allontanare la morte il più possibile anche a costo di un accanimento terapeutico. Non è facile prepararsi alla propria morte, in passato le preghiere della sera di tanti cristiani finivano con l’Ave Maria per la buona morte. L’età del morente è certo una variabile molto importante nel rendere più arduo o più sereno il passaggio ad un’altra vita. Per tanti la fiducia e la confidenza con Dio Padre misericordioso rende questa preparazione alla morte più serena. Chi muore spesso soffre per le persone care che lascia, preoccupato per il loro futuro, per il vuoto affettivo che si verrà a creare.Ho molto vivo il ricordo di una giovane mamma eccezionale, ricoverata all’Hospice della Via di Natale, che volle dire lei alle sue bambine di 9 e 4 anni che non sarebbe più tornata a casa, che i medici l’avevano curata tanto tanto, ma che la malattia era stata più forte dei medici. Ricordo l’abbraccio della madre alle figlie e l’esclamazione della bambina di 9 anni “Io da grande farò il medico!”.Quanti parenti e amici stanno accanto al morente, o pensano alla morte del parente o dell’amico, vivono tutta la tristezza e il dolore della perdita.L’elaborazione del lutto, cioè il ritrovare significato alla propria vita nonostante la perdita di una persona cara, richiede 6/12 mesi, talvolta non si realizza mai a pieno.Negli anni ’70 Sergio Zavoli fece un documentario con riprese in un monastero di clausura. Tutti fummo colpiti da un dettaglio: la campana del monastero suonava a festa quando una monaca moriva a dire che quella sposa di Cristo aveva raggiunto il suo sposo.Chi accoglie il Vangelo e la promessa di Gesù “Vado a preparavi un posto” non vive la morte con meno dolore rispetto a chi pensa che con la morte tutto finisce, ma ha la certezza di un nuovo incontro in una dimensione tutta spirituale. La morte trova espressione universale nel pianto ed espressioni culturali diverse in diverse forme di cura delle salme, del funerale, della sepoltura.Il coronavirus ci ha costretto bruscamente a modificare le modalità di accompagnamento del morente e riti di sepoltura.Sappiamo che i malati di coronavirus sono morti con gli operatori sanitari accanto, le loro salme non sono state più viste dai famigliari, sono state benedette in solitudine dai cappellani degli ospedali e sono state portate in cimitero con l’obbligo della cremazione. Le norme igienico sanitarie sono state una tutela per la salute di tutta la popolazione.Sarà sempre uno choc per tutti noi l’immagine dei camion militari che lentamente e dignitosamente uscivano da Bergamo. Maria José Mores, Psicologa