L'Editoriale
Il corpo del reato
Uccidere di botte, fare di se stessi un'arma. Chi ha sparato getta la pistola nel fiume, chi ha accoltellato si chiede come e dove far sparire la lama. Ma come convivere con le proprie mani e i propri piedi trasformati in strumenti di morte?
Uccidere di botte, fare di se stessi un’arma. Chi ha sparato getta la pistola nel fiume, chi ha accoltellato si chiede come e dove far sparire la lama. Ma come convivere con le proprie mani e i propri piedi trasformati in strumenti di morte?
La morte in questione, lo ha confermato l’autopsia, è stata causata “dai violentissimi colpi assestati e non causali”. Tanto è vero che, dopo il referto del medico legale, la procura ha cambiato il capo di imputazione per i quattro arrestati: da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario, per di più aggravato dai “futili motivi”.
Si parla qui del caso che domina le cronache da settimane: il pestaggio mortale del ventunenne Willy Monteiro Duarte da parte di quattro ragazzi più grandi. Un omicidio senza motivo se non la voglia di scatenarsi e infierire. Il gip lo ha messo nero su bianco: “Nell’assenza di alcuna plausibile ragione”.
E così un giovane, intervenuto a difendere la ragazza di un amico, oltraggiata da frasi pesanti, è stato attaccato, atterrato e trattato come uno dei sacchi da palestra: investito di scariche di colpi da parte di uomini anagraficamente più adulti e fisicamente più imponenti. Ma incapaci di dominare pensieri e muscoli tanto da farsi strumenti di morte.
La notte tra 5 e 6 settembre i giardinetti di Colleferro si sono trasformati sul set di una di quelle fiction che rendono spettacolo la forza bruta e la violenza, comunicando l’efferatezza come chiave del dominio. Ma Willy non si è alzato più per davvero.
La verità è che il male esiste ed è così lontano da quello che l’uomo dovrebbe essere che si suole definire tali furie: bestiali.
Facile ora dire che non lo si può accettare nè giustificare. Ma cosa si fa, abitualmente, contro la cultura del più forte, del predominio, del farsi furbi, del passare davanti, dell’esibirsi a danno di qualcuno, della violenza? Quanto tempo si spende per ben apparire fuori e quanto per costruirsi dentro?
Non va dimenticato che quel male – gli arrestati hanno precedenti – ha un suo fascino e schiere di seguaci sui social. Che quei muscoli mortiferi sono stati esibiti dai possessori e ammirati dai loro followers: trasmissione dell’antivalore della forza fisica come strumento di affermazione, dominio, sopraffazione. Ed è qui la radice nel male: non in un corpo costruito e ostentato, quanto nell’abitudine alla cultura del più forte che è capace di anestetizzare la percezione del male, nel seguire la scia, nella consapevolezza mancata, nel perduto senso del limite e del lecito, nell’onnipotenza del “qui comando io”.
Sul caso ci sono stati commenti di ogni tipo: su Willy lo straniero, sulle palestre, sulle derive social, su un certo fascismo di ritorno, sul narcisismo fine a se stesso, su chi c’era e non è intervenuto. Tante profuse sentenze e forse troppe poche domande.
Piero Angela, primo mirabile divulgatore scientifico della tv italiana, dal podio dei suoi 92 anni e 12 lauree ad honorem ha dichiarato: “Se porto il cervello di mio figlio a scuola, quando vado a ritirarlo dopo diversi anni mi aspetto che sia allenato a dovere”…
Tralasciando temi pur fondamentali come la scuola e la famiglia, chiediamoci: come abbiamo allenato il nostro? Ce ne prendiamo cura? Alleniamo testa e cuore o ci bastano addominali e bicipiti? Detto altrimenti: cosa conta per noi e per chi frequentiamo? Crescere in sapienza, generosità, correttezza, lealtà, altruismo ha ancora un senso o sono valori da libro Cuore soppiantati dall’ansia di occupare la scena con un selfie da postare?
Certo che, se questi sono i risultati, non ci abbiamo guadagnato un granché. La violenza che deflagra senza più argini lascia l’uccisore davanti al gesto compiuto, in compagnia di un ineliminabile corpo del reato: se stesso. Promemoria di una forza che non è servita a salvare neppure chi la possiede.