Ebola: Roberto Scaini il medico degli intoccabili

Nel libro "Intoccabili - Un medico italiano nella più grande epidemia di Ebola della storia" Valerio la Martire, per l’editore Marsilio, racconta l’esperienza del volontario riminese di Medici Senza Frontiere, Roberto Scaini a Monrovia, in Sierra Leone, nel 2014.

“No touch mission – No touch”. “Missione dove il contatto è proibito”, potrebbe essere il messaggio simbolo dell’epidemia di Ebola. “Proibito toccare” è una delle regole principali che deve rispettare chi opera in aree colpite dall’epidemia.Nel libro “Intoccabili – Un medico italiano nella più grande epidemia di Ebola della storia” Valerio la Martire, per l’editore Marsilio, racconta l’esperienza del volontario riminese di Medici Senza Frontiere, Roberto Scaini a Monrovia, in Sierra Leone, nel 2014.Roberto (Robi) nello stesso anno è partito per altre due missioni in paesi colpiti da Ebola. Nel 2016 è stato in Iraq e nello Yemen. Molte le sue missioni in progetti di salvataggio nel Mediterraneo. Ma l’Ebola non si dimentica mai, resta dentro, nei medici e in tutti gli operatori sanitari e pure in chi è guarito. Roberto ha risposto subito affermativamente alla chiamata da Medici Roma. Nel giro di una mezza giornata ha mutato la sua voglia di andare a prendere gli ultimi “scampoli di sole”, con la partenza per la formazione a Bruxelles e poi destinazione Monrovia.Il primo giorno è stato un immediato impatto con una realtà atroce, un impegno enorme, missione estenuante per combattere un nemico che uccide, “che impedisce di toccare chi amiamo, perché vuol dire morire”. Roberto ha lavorato per un mese intero senza sosta nel centro periferico di Monrovia Elwa 3, l’unico della città dove vengono continuamente portati i colpiti da Ebola.Nel centro, ai cancelli, si arriverà col tempo quasi a dover fare delle scelte, a intuire subito chi sopravviverà, pochi, e chi non arriverà a sera. Tornano alla mente certe ipotesi azzardate fatte di recente su chi, in Italia, far accedere alle terapie intensive…”L’Ebola ho imparato a riconoscerla nei passi stentati dei pazienti, nello sguardo vitreo che non chiede nemmeno più aiuto, nel tremore incontrollabile che impedisce di tenere un bicchiere d’acqua o un cucchiaio di minestra in mano. In quei volti che sai che non vedrai più il giorno dopo, perché non arriveranno a domani”. Sembra quasi inutile a Medici senza Frontiere il loro operato contro l’Ebola, ma si convincono che almeno aiutano a morire con dignità. Una tragica sera, stremato sotto la pioggia torrenziale e il fango Robi fa l’ultimo giro del campo, tra stanchezza e sonno. Al cancello sono in dieci a chiedere di entrare, dove non c’è più posto. Ma come lasciarli in quello stato? Tra loro il piccolo Sunichie. Il padre implora che il suo piccolo sia preso, ma per lui non c’è niente ormai da fare, ha già le gengive sanguinanti. Robi quella sera accoglie ugualmente i dieci che premono al cancello e Sunichie. Chiama medici e assistenti, allestiscono una tenda di fortuna. A Sunichie vengono fatti indossare abiti asciutti, viene imboccato. Il piccolo appoggiato alla tuta di plastica bagnata di Robi riesce a sussurrare un flebile “Thank you”. Poi viene posto su un materasso e sopra una coperta. Un altro “Thank you”. Il piccolo si addormenta e nella medesima posizione la mattina seguente Robi lo trova morto. “Il suo papà è stato fortunato – pensa Robi – perché a suo figlio abbiamo dato una morte dignitosa. Però non riesco ancora a togliermi dalla testa l’ultimo grazie di quel bambino”. La vita al campo ricorda gesti di saluto toccandosi i gomiti o le scarpe, che abbiamo visto in tempo di Coronavirus. Ricorda tute di plastica appiccicate alla pelle, con quaranta gradi, una guaina di gomma e velcro dentro la quale non passa un filo d’aria, sotto tende che suonano come tamburi battuti dalla pioggia.Cataste di morti, spesso senza nome, in attesa di essere cremati. Sensazione di vivere in un campo di morte. Robi e gli altri sanitari torneranno nonostante tutto in altre missioni Ebola perché a Monrovia qualcuno era sopravvissuto, due avevano deciso di sposarsi. L’ultima mattina di Robi a Monrovia Elwa 3 ad alcuni bambini in via di guarigione viene concesso di giocare a pallone, nonostante i rischi, Robi corre con una bambina, alcune donne si mettono a ballare. Tutti costoro vogliono far capire che sono vivi, mentre attorno si continua a morire. “Quel pomeriggio ho sentito finalmente di aver fatto il dottore”.Maria Luisa Gaspardo Agosti